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La accettiamo la sfida, anche se ci tremano i polsi.

La sfida di non considerare le Beatitudini come pie favolette edificanti.

La sfida di leggerle e di meditarle, di farle vita, afflato, desiderio, scommessa. Perché è quella visione ribaltata del mondo in cui Dio diventa il primo ad averci sedotti e spinti a seguire l’agnello che porta il peccato, a seguirlo fin nelle periferie dell’umano e del pensiero, a lasciare ogni rete per dare sapore e luce a ciò che siamo.

Perché se il vangelo non cambia la vita, se almeno non la orienta verso l’altrove allora significa che qualcosa non funziona, non scherziamo.

Cambia il modo di vedere gli altri e la violenza.

Cambia il modo di vedere le donne e il dominio del maschilismo.

Cambia il modo di vedere noi stessi, per spingerci verso la più disarmante e disarmata autenticità.

Cambia.

E continua a cambiare.

La legge del taglione

Diversamente da come appare, la cosiddetta legge del taglione era una forma di giustizia primitiva ma efficace. Contenuta anche nel Codice di Hammurabi, è un limite alla barbarie, alla vendetta privata, un argine al delirio.

Una forma di civiltà, in qualche modo, una vendetta proporzionata.

Alla vecchia legge del taglione Gesù ne contrappone una inversa: invece della vendetta suggerisce di accettare un altro torto maggiore di quello ricevuto.

Gesù esagera. Cogliete il dettaglio:

Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, la guancia destra, quindi accetta un manrovescio, più brutale e umiliante del solo schiaffo.

A chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello: Es 22,25-26 afferma che alla sera occorre restituire il mantello, la sopravveste. Qui Gesù dice di lasciargli anche quello, restando in mutande.

E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due: gli àngari, da cui viene angheria, erano i corrieri del re che avevano il potere di costringere chiunque a mettersi a loro servizio. Qui, unica volta in Matteo, si parla di “miglia”: è evidente il riferimento ai romani e alla persecuzione in atto!

Paradosso

In questo brano Gesù raggiunge certamente il vertice del linguaggio paradossale. Ma, come fanno notare gli esegeti, non dobbiamo prendere alla lettera le parole del Signore, quanto capirne l’intenzione profonda, non occorre presentare materialmente l’altra guancia ai persecutori ma dare possibilità al malvagio di riflettere sui suoi errori. Non si tratta di subire passivamente i soprusi, di rimanere inerti davanti alle ingiustizie ma di rinunciare ad ogni rivincita, anche a qualche diritto pur di cercare di salvare chi ci perseguita.

Gesù propone un’ascesi paradossale, che disarma l’avversario.

Non ha offerto l’altra guancia quando lo schiaffeggiavano, ma è morto in croce per i suoi assassini.

La logica del paradosso è sempre presente nell’annuncio evangelico, anche nel nostro, la carica di sovversione evangelica ha caratterizzato la storia della Chiesa anche se, a dire il vero, a volte la Chiesa si è piegata alla logica comune, tradendo il Vangelo.

Perfetti come il Padre

Siamo giunti alla conclusione del capitolo cinque che, partendo dalle Beatitudini, ha poi inteso smentire alcune interpretazioni della Torà portando le norme a compimento. Dopo avere visto l’omicidio, l’adulterio, il divorzio (che sarà ripreso), il giuramento e la non-violenza, Gesù spiega la motivazione per cui scegliere questi atteggiamenti: l’imitazione del Padre che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Gesù punta in alto, rivela che l’uomo porta in sé l’immagine di Dio e questa somiglianza è chiamato a creare per vivere la felicità, la beatitudine.

Il Levitico (19,18) imponeva all’ebreo di amare il re’a, il prossimo, cioè il connazionale, il socio, il compagno. Nei secoli l’interpretazione si era ampliata fino a coinvolgere lo straniero (ger).

Odiare i nemici non è un’affermazione che si trova nella Bibbia ma, di fatto, era ciò che alla fine accadeva (una verosimiglianza con l’atteggiamento dell’Isis, caritatevoli con gli islamici sunniti e feroci con gli altri).

Gesù pone un’autentica rivoluzione: invita ad amare i nemici (agàpe) con l’amore che ci proviene da Dio, non per simpatia, non per folle idealità. Ed esemplifica il modo di amare: pregare per quelli che ci perseguitano (Matteo sta scrivendo ad una comunità di perseguitati). E motiva: questo è possibile perché imitiamo l’atteggiamento di Dio che fa piovere sui giusti e i malvagi.

E invita noi discepoli a riflettere: in cosa i nostri atteggiamenti non diversi rispetto a chi non crede? L’amore resta un vertice ma corriamo il rischio di interpretarla come se fosse il risultato di uno sforzo. È possibile sforzarsi di amare? Non è solo un sentimento? No, certo, l’amore ha anche una componente di volontà soprattutto nei confronti dei nemici, di chi ci ha fatto del male. Non un amore di affetto, o mieloso, ma una scelta consapevole, dettata dalla nostra vicinanza a Cristo. Questo amore nasce come imitativo (fare come il Padre che fa sorgere il sole e fa piovere) ma, in Giovanni, diventa contagioso: sono capace di amare con l’amore con cui il Padre mi ama!

La differenza cristiana esiste, come diceva bene il priore di Bose. E se non esiste, allora non esiste il cristianesimo. In cosa si differenzia il nostro agire? Spesso è legato solo al buon senso o alla buona educazione. Tempi feroci come quello che viviamo ci obbligano/spingono ad osare molto di più.

 

Attenzione, però, al doppio rischio: da una parte quello di diventare degli zerbini, farsi asfaltare dagli altri. Dall’altra quello di crescere nell’orgoglio spirituale: noi siamo i migliori. Perciò Luca, quando arriva a questo punto, “corregge” Mt scrivendo: siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli (Lc 6,36).

È la misericordia che sintetizza la perfezione del Padre.

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