Il cicalino richiama l’attenzione, così che se uno volesse isolarsi e, adesso esagero, provare a chiudere gli occhi appoggiandosi allo schienale della sedia e riposare proprio non riesce a farlo.
Questo non è un posto di riposo, ma di battaglia incruenta.
Solo alla mia terza visita ho capito la ragione per cui, all’unisono, concentrato nell’arco di dieci minuti ogni qualche ora, il cicalino sembra impazzito: gracchiando per poi spegnersi e riprendere.
E’ che le flebo si esauriscono quasi tutte nello stesso momento e vanno cambiate. Sono tanti gli ammalati: primo turno, al mattino, secondo turno, primo pomeriggio. E per i più fortunati turno dalle 8 alle 17, se va bene.
Chemioterapia in uno dei grandi ospedali del Nord Italia.
Day-hospital di ematologia: sessanta,settanta ammalati ogni giorno vengono per la loro estenuante terapia. Molti accompagnati dai famigliari. Più le infermiere. E gli inservienti. E i medici. Duecento persone che abitano un’ala dell’ospedale un po’ datato e fatiscente, come la gran parte dei nostri ospedali. Una comunità che si forma e si disfa ogni giorno. Un micro-cosmo intriso di dolore e speranza.
Walchirie e Vichinghi. Tutti guerrieri.
I nuovi pazienti li riconosci dallo sguardo perso, venato da rabbia e paura. Altri sono dei veterani con le loro facce tirate, la mascherina per non prendersi qualche infezione e la testa rigorosamente calva.
Si combatte qui.
In mezzo al caldo soffocante dei termosifoni e la luce livida dei neon.
Ma si combatte.
Per restare uomini e donne. Per osare sperare.
Per avere futuro.
I malati più determinati attaccano bottone durante le lunghe ore di infusione, dalla loro poltrona o dal letto.
Età diverse, storie diverse, accenti dialettali diversi. Ma una cosa comune: la lotta contro la malattia.
Alcuni sono più spenti, altri tenaci.
Osservo, ospite non invitato.
Non vorrei essere qui, né vorrei ci fosse mio fratello. Ma siamo qui.
Ed è bello, in questa frontiera, notare i tanti piccoli gesti di attenzione, e dinamiche, le sfumature di varia umanità.
C’è tanto qui. Dolore, certo.
Ma tanto anche di altro.
Sono sprofondato nei miei pensieri.
Sarà una lunga giornata per me che aspetto. Figurarsi per chi è in terapia.
Altri famigliari, come me, cercano di far passare le ore.
Arriva un’inserviente di mezza età, piuttosto corpulenta e spiccia, con un carrello. Si rivolge a noi, come a dei naufraghi spiaggiati e confusi:
“Volete qualcosa per colazione?”.
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