È un ricordo che riaffiora dal profondo della memoria, potente, e si fa strada in questi giorni duri ed inattesi.
Era l’inizio del 2008, un anno molto impegnativo per me, da tanti punti di vista.
Tra le molte cose accadute il 31 dicembre, commettendo un’imprudenza, mio padre era caduto e si era fratturato il femore. Una condanna a morte, per lui, colpito da grave insufficienza epatica e renale.
In ospedale, dove venne operato, contrasse un banale stafilococco che gli aggredì i polmoni e lo portò in rianimazione in poche ore.
A turno io e i miei fratelli potevamo fargli visita per mezz’ora ogni giorno.
L’uso dell’ossigeno, col casco, lo aveva fatto uscire dallo stato di stordimento ma erano le sue ultime ore. L’ultima volta che lo vidi attraverso il vetro del reparto, ci guardammo lungamento. Sorrideva, sembrava sereno. Provai a dirgli alcune cose dall’interfono, sperando che sentisse. Erano le parole del bambino che c’era in me.
Annuì e mi disse con un filo di voce, in dialetto, che andava tutto bene, di non preoccuparmi.
L’indomani morì ed ebbi il privilegio, insieme a mio fratello maggiore, di assistere al suo passaggio, avvisati per tempo dallo staff medico, cordiale e discreto.
La morte è evento misterioso e potente, delicato e ineluttabile.
Affrontare quel momento avendo accanto qualcuno è importante, decisivo.
Penso, allora, ai tantissimi, troppi, che in questi giorni muoiono da soli nei nostri reparti di rianimazione, alla fatica che fanno, oltre ad accettare il passaggio, nel non avere accanto nessuno.
E mi chiedo se sia inevitabile questo stato di cose.
A questo proposito mi sto interrogando.
Amici cappellani mi confermano di non poter accedere negli ospedali, per ragioni di sicurezza.
Come se l’idea che la vita si riduca a quella biologica, considerando superflua e temporaneamente trascurabile quella spirituale, animica, fosse un dato accettato da tutti, in questo tempo di pandemia.
Davvero non possiamo elaborare un protocollo in cui cappellani, pastori, imam, volontari, consapevoli del rischio che corrono, come peraltro fanno i medici e gli infermieri, garantendo la sicurezza loro e dei famigliari che permetta, a chi lo desidera, di fornire un aiuto, una vicinanza, una preghiera, a chi sta morendo?
Davvero questo aspetto, in questa emergenza, è trascurabile e sacrificabile?
Vorrei che ne parlasse, serenamente. Vorrei che politici, medici, vescovi e pastori non trascurassero questa che mi sembra una questione affatto marginale.
Se l’uomo è solo componente biologica come tale va trattato. Ma rinunciare ad accompagnare le persone nel loro percorso terreno finale mi sembra una violenza inaudita che non possiamo accettare supinamente.
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