Decimo giorno di quarantena.
Terza settimana di quaresima, quella della Samaritana, della sete.
Passo il tempo a leggere e a scrivere, occhi permettendo. Quando riesco sto in balcone o vado a gettare l’immondizia o a comprare il pane per la vicina. Preparo ogni giorno la mia diretta su Facebook, alle 1830, benedetta tecnologia! Un piccolo canale di comunicazione col mondo. Per pregare, incoraggiarsi, meditare. E sto lavorando tanto ad implementare le Lectio a domicilio, intuizione profetica, per fare formazione più densa a chi vuole. Sto preparando le prossime domeniche alle 11 per meditare e approfondire il vangelo (www.passaparola.org).
Il vantaggio di vivere in un paese di 400 persone, valdostani notoriamente eremiti, come me, è quello di non incontrare nessuno, nemmeno per sbaglio. Altro che assembramenti. Mi sono dedicato qualche ora a camminare nei boschi qui sopra, nei giorni scorsi, senza incontrare anima viva, ma mi sono sentito a disagio pensando ai tanti chiusi nei loro appartamenti in città.
Comincia a pesare a tutti questa quarantena. Anche perché le notizie che arrivano in tempo reale non aiutano la spensieratezza.
Stamani ho visto sui media la lunga fila di camion militari che nella notte hanno portato i defunti di Bergamo fuori città per essere cremati. Un’immagine da film apocalittico che stringe il cuore.
Come stringono il cuore le tante testimonianze che mi arrivano sui social o personalmente. Come quella di Gianni, di Milano. Suo padre, morto di infarto in casa, è stato prontamente prelevato com’era, messo in un sacco salma, portato al crematorio. Riccardo mi racconta del suo sconcerto, dell’assenza del necessario tempo e della indispensabile ritualità per affrontare un evento del genere. Quando tutto questo finirà dovremo farci tante domande, rivedere tanti comportamenti.
Così come penso ai tantissimi che stanno morendo da soli, intubati, senza il conforto di un parente. E ai famigliari che, come mi confida Eleonora con la mamma in rianimazione, ricevono uno scarno comunicato stampa dall’ospedale ogni giorno alle 15. Niente di più. Nessuna altra informazione, nessuna possibilità di comunicare. Come penso allo sfogo di Lara, infermiera, esausta, che non torna più a casa per non rischiare di contagiare i suoi due ragazzi e che mi parla dello strazio delle persone che prendono consapevolezza di quanto sta accadendo e degli sguardi lunghi che scambia con le persone intubate, sguardi colmi di compassione e di tenerezza. Come penso alla signora entusiasta di avermi “scoperto” a Verona, il mese scorso, di come mi sia venuta a salutare dopo la Lectio. Ora, insieme al marito, si trova in rianimazione.
Sorella morte ha uno sguardo arcigno, in certi momenti.
E la paura sale, attanaglia, toglie l’equilibrio, rimette tutto in discussione.
Un tempo di fame. Infame, senza fama, certamente.
Ma anche un tempo denso da riempire, per affrontare le nostre ombre, per chiederci, sul serio, cosa sia la nostra vita, come ce la stiamo giocando. Tempo che fa emergere le persone per quello che sono, oltre le apparenza, oltre i ruoli.
Ce la faremo, scriviamo sui balconi.
Sì, certo. Ma non senza cambiare tutto. Non senza lavorare e scavare. Non senza metterci in discussione. No, Dio non risolve magicamente le cose. Non aggiusta i danni che noi abbiamo fatto in questi decenni di irresponsabilità, di narcisismo, di follia. E, confermo, questo può diventare un tempo di grazia. O un tempo sprecato.
San Giuseppe ha trovato la strada affrontando, passo passo, le situazioni inattese che gli comparivano dinanzi, senza cedere, senza lamentarsi, senza sbroccare. Sia lui, patrono universale della Chiesa, a custodire i nostri cuori.
Stamani ho pregato per i defunti, davanti al crocefisso, usando il Rituale del defunti.
Ho fatto da ponte, pontefice, fra cielo e terra.
La Chiesa è viva. Se noi siamo vivi dentro.
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