Ho imparato a riconoscere tutti i dettagli della sala d’attesa dell’ambulatorio di oculistica. Le sedie in plastica rossa, i manifesti di prevenzione del glaucoma, le porte che accedono all’ambulatorio di anestesia e a quello di pediatria. E a riconoscere la voce dell’infermiera che esce e, con infinita pazienza, raccoglie prescrizione e ticket e avvisa che, essendo anche Pronto Soccorso oculistico, i tempo potrebbero dilatarsi.
Vengo qui da quasi due mesi, ogni tre, quattro giorno. Un’infezione virale sta cercando di portarsi via quello che è rimasto della mia vista dopo tre trapianti di cornea e amenità del genere. Pazienza. Adesso riesco a scrivere ed è già un’immensa benedizione.
E da un mese seguo la stessa procedura: arrivo, pago il ticket (medicazione, 4,80 euro), mi siedo, metto le cuffie, chiudo gli occhi e ascolto musica. Di solito aspetto un’ora e qualche rispetto all’orario fissato, ormai lo so.
So che non è garbato isolarsi. Ma proprio non riesco più a sopportare un’ora e qualche di lamentele, improperi, nervosismi.
Di solito inizia così: qualcuno che aspetta da un’ora si spazientisce, si lamenta ad alta voce, coinvolge gli altri. La sanità fa schifo, è tutto un rubare, con i soldi ti farebbero passare subito, vergogna…
La prima volta ho fatto notare che era anche Pronto Soccorso e che noi tutti eravamo lì per una visita, quindi passano prima le urgenze che, in quanto tali, non possono essere programmate. Alla mia semplice osservazione un signore visibilmente irritato mi ha detto che lui non aveva tempo da perdere. Certamente un signore pensionato non può aspettare un’ora, avrei voluto dirgli, ma ho taciuto.
E, rivolgendosi alle folle irritate e spazientite, ha sentenziato che con tutti i soldi che diamo allo Stato meritiamo di passare in orario.
Ho nuovamente taciuto.
Volevo obiettare che un conoscente, in America per studio, mi ha raccontato di avere avuto una grave infezione all’occhio, di essere andato al Pronto Soccorso che non gli ha accettato l’assicurazione italiana e ha dovuto usufruire del servizio per i poveri. Il giorno dopo è tornato per una visita di quattro (quattro!) minuti dall’oculista e gli è arrivata una fattura di 1500 dollari. Ecco. E che, nonostante tutto, abbiamo un servizio sanitario da leccarsi i baffi. Ma ho taciuto.
Da allora chiudo gli occhi, e ascolto musica.
E quando entro in visita l’infermiera mi accogli con un sorriso da qui a lì, dicendo che almeno porto il buonumore (semplicemente rispetto il lavoro di chi lavora).
Ecco stamattina ero di nuovo così. Fuori dal mondo.
Poi ho aperto gli occhi. Davanti all’ambulatorio di anestesia per le partorienti vedo un anziano papà e una giovane futura mamma.
Down.
Visibilmente smarrita e impaurita.
Ho immaginato quanta storia e che storia ci fosse dietro quella ragazza, il ventre appena ingrossato, e il papà tenerissimo che le teneva per mano.
Ho visto lo sguardo del padre poggiarsi sulla figlia. Rassicurarla. Baciarla in fronte accarezzandole i capelli. E l’abbraccio di lei pieno di un amore che noi fenomeni “normodotati” abbiamo scordato.
Ho chiuso gli occhi, benedicendoli.
E tutta l’energia greve e sporca di quella stanza si è sciolta.
(la foto è indicativa, non concerne le due persone di cui parlo, ovviamente)
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