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Ci sono dei momenti in cui ascolto i miei passi.

E cerco di non fare rumore, di alleggerire, per quanto possibile, il contatto con il terreno. Sono i momenti in cui prendo consapevolezza del mio corpo, ascolto il mio respiro, sento il calore del sole o l’aria fresca sulla pelle, il sudore che segna il volto e il busto. 

E il sottile dolore dello sforzo delle gambe, del polpaccio o delle spalle che sorreggono lo zaino, delle braccia che usano i bastoncini per rimanere in equilibrio e potenziare la spinta delle gambe.

E l’assenza della presenza ingombrante dell’uomo. Nessun palo della luce, o strada, o casa. Niente. E più si sale e più scompare ogni traccia, finanche il labile sentiero che si inerpica sulla costa erbosa o che attraversa la morena glaciale.

Mi volto verso valle, in basso: a malapena distinguo il punto di partenza o il tetto di una stalla, un mayen.

Mi accompagna, quasi sempre, il rumore dell’acqua dei torrenti o il vento. A volte qualche fischio di una marmotta che allerta della presenza di un umano. Rari gli incontri di qualcuno che sale o che scende. Un saluto, due battute, un sorriso di intesa.

Quando arrivo alla meta, al colle prefissato, in cima ad una montagna, ad un rifugio in quota, tolgo lo zaino e ammiro. Mi inebrio di luce, di silenzio, anche il corpo partecipa, potendosi finalmente sedere. Mezz’ora di sosta, un po’ di cibo e si scende.

Da quassù l’anima si innalza e la tracotanza si abbassa. Fai esperienza della bellezza, certo, ma anche del limite infinito che siamo. Il nulla in mezzo a tanta immensità. Fragili formiche che corrono in cerchio. Anche i problemi, i giri di testa, le ansie, i dolori, si attenuano. L’anima smette di ripiegarsi su se stessa e guarda altrove.

Quando ero giovane ho camminato tanto e fatto tante uscite in montagna, belle, magnifiche. Poi, per tante ragioni, non ultima qualche problema di vista di troppo, ho rinunciato, accontentandomi di uscite di qualche ora. Questa estate no. Sono partito con mete semplici, poi, in crescendo, fino ad andare a scovare luoghi che, nonostante cammini da trentacinque anni, non ho mai visto.

E l’età, la diversa prospettiva, un po’ di saggezza, forse, mi hanno fatto cogliere un aspetto che, nel passato, non avevo colto.

Ora so bene, nel cuore e nell’intelligenza, il significato del Creato come Tempio della presenza di Dio. Cammino in montagna come se entrassi in una Cattedrale romanica.

Questo ho imparato, questa estate. Questo desideravo condividere.

5 Comments

  • Rita, 22 Settembre 2018 @ 14:02 Reply

    Grazie per la splendida condivisione.

  • Federica, 22 Settembre 2018 @ 20:54 Reply

    Grazie Paolo, dici bene, bisogna accostarsi al Creato in silenzio e con rispetto, quasi come chiedere il permesso di entrare. Non è facile da capire, ma è proprio così.

  • Carlo, 22 Settembre 2018 @ 21:57 Reply

    Grazie!

  • Simona, 23 Settembre 2018 @ 17:04 Reply

    “Quand’io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita….” -Salmo 8

  • Silvia Sulis, 3 Novembre 2021 @ 15:19 Reply

    Grazie per questa bellissima condivisione, Paolo. Ora siamo a novembre del 2021, ma questo pensiero vale sempre

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