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Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. 
Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. 
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto». Mt 11,25-30

Oggi la Chiesa festeggia il Sacro Cuore di Gesù che ci aiuta a fissare lo sguardo a colui che hanno trafitto e che, innalzato, attira tutti a sé.

L’immagine è da purificare: le stampe oleografiche di fine ottocento ci presentavano un improbabile Gesù con i boccoloni e lo sguardo eccessivamente languido mostrare un petto aperto da cui fuoriuscivano tanti raggi luminosi che oggi ai nostri bambini fanno venire in mente i poteri dei supereroi. Ma, sotto la crosta, la festa di oggi è di quelle che saziano l’anima, che commuovono alle lacrime. Oggi fissiamo lo sguardo sulla misura infinita dell’amore di Cristo per ciascuno di noi. Oggi celebriamo la rivelazione di un Dio che è pastore e padre, che muore per amore, che è infinitamente distante dalla brutta rappresentazione che spesso ne facciamo. No, Dio non è un severo giudice pronto a coglierci in fallo, ma un amante passionale e ferito, che si dona fino alla fine. È questo il senso della festa di oggi e la croce, segno supremo del suo amore, è lì a ricordarci non il supremo dolore, ma l’infinito dono che ci è stato fatto. Il cuore è, secondo il sentire comune, la sede delle emozioni e dell’amore, delle passioni e del dolore. Festeggiare il cuore di Cristo significa soffermarsi a contemplare la misura del suo amore infinito, lasciarsi raggiungere, ancora una volta, dalla sua compassione.

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