Vilnius è bellissima. Un centro barocco tutelato dall’Unesco, il più grande dell’Europa dell’Est. Oltre quaranta chiese entro le mure, e campanili e palazzi. Ma molte delle chiese sono spoglie, ancora oggi. Drammaticamente nude e sporche, altari divelti, pavimenti rubati, stucchi slavati. La cattedrale era usata come garage per la riparazione dei trattori. La cinquecentesca chiesa francescana come deposito per la vicina facoltà di Belle Arti. E’ il comunismo, dolcezza. Quello vero, puro e duro. In cui i cattolici erano tollerati malvolentieri, in attesa di vedere scomparire definitivamente l’oppio dei popoli.
Per Julius, invece, quel luogo era magico: veniva con alcuni ragazzi come lui, adolescenti, per vedere cosa c’era dentro. E sognava, romanticamente, ammette, di essere come i primi cristiani, nelle catacombe, privato della libertà in quanto lituano e aspirante cristiano. Come era già successo durante l’occupazione zarista dell’Ottocento.
Sorride, anche se il volto è segnato. E’ visibilmente sereno, quasi si scusa per essere al centro dell’attenzione, da buon francescano. Sono affascinato dalla sua armonia interiore.
Racconta di come, un giorno, un prete lo coinvolse. Niente di che: si trattava di scrivere a macchina di nascosto un bollettino sulle persecuzioni dei cristiani a Vilnius. A capo dell’organizzazione clandestina c’era una suora. Alcune pagine ciclostilate, finché la gente sapesse cosa c’era dietro la facciata. Poche centinaia di copie che, a volte, uscivano fuori cortina e venivano lette dalle radio amiche, Radio Vaticana, anzitutto. Il suo padre spirituale lo aveva avvisato: ci prenderanno.
Così avvenne, l’anno delle olimpiadi di Mosca, il 1980. L’idea dell’apparato era di togliere di mezzo definitivamente l’opposizione al regime.
Si fece un anno e mezzo di carcere in attesa di giudizio nella sede del KGB a Vilnius, un lussuoso palazzo neoclassico, la luce sempre accesa, il tavolaccio su cui dormire largo quaranta centimetri, intuiamo gli interrogatori, le percosse. Penso: io iniziavo le scuole superiori, lui aspettava il processo. Lo condannarono a cinque anni di esilio in Siberia per avere scritto propaganda anti-sovietica. Alla suora ne diedero sette: uno per ogni foglio che gli trovarono in casa.
Furono anni durissimi, specialmente durante il lungo tragitto, con le tappe di mesi nelle carceri, mischiati ai condannati comuni e picchiati. Poi la Siberia. Un inferno di ghiaccio in mezzo al nulla. Si scusa, quasi, per essere sopravissuto, dicendo che era molto giovane e determinato e che non impazzì come molti altri, né tradì gli amici e che, insomma, non fu poi così dura.
Una volta tornato, invece di abbandonare la fede, si fece frate. Era il 1987, io ero appena entrato in teologia. Mentre era a -50° sottozero, racconta scherzando, imparò il latino per dire messa col vecchio rito, l’unico autorizzato. Poniamo delle domande per capire, ma io vedo solo la sua contagiosa serenità interiore. La cosa che lo spaventava di più, dice, era quando si svegliava al mattino, pensando di essere in un incubo. Non lo era. Era la realtà.
Ora non fa la vittima, non si sente a credito con tutti, e non è fuori dal mondo: l’aura di sofferenza della Chiesa lituana di quegli anni è scomparsa, la modernità ha fatto in fretta a divorare tutto; sorride dicendo che hanno fatto in fretta a scristianizzarsi, come da noi. Che se fosse più giovane e avesse meno dolori starebbe con i giovani per parlar loro di Cristo.
Gli chiedo una benedizione. Ce la offre, un po’ imbarazzato, in latino.
Sono stato benedetto più volte da un santo, papa Giovanni Paolo. Oggi sono benedetto per la prima volta da un martire.