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Certo che credo nella Provvidenza. Ci mancherebbe.
Ne ho ulteriore conferma stasera. Sono sceso dal mio rifugio di montagna per fare una commissione a mia suocera e, prima di risalire in quota, faccio due passi nel quartiere per vedere le novità.
La incontro sul marciapiede ancora ingombro di neve.
“Paolo!”
Ci abbracciamo. Da quanto non la vedo? Facciamo una decina d’anni.
Consueti scambi di auguri, notizie sue e di suo marito.
Poi il tasto dolente. Oso.
“Gianni?”
Lo sguardo si intristisce.

Gianni l’ho conosciuto quando ero viceparroco.
Un ragazzo come tanti, irrequieto e goffo.
I suoi genitori mi avevano allertato, prima che venisse in oratorio. Lo avevano adottato dopo anni di attesa e di preparazione. Un bambino abbandonato dai proprio genitori, poi adottato a due anni e ri-abbandonato. Avevano accettato di accoglierlo loro, sostenuti dallo staff che lo seguiva.
I primi anni era andata abbastanza bene, fin quasi all’adolescenza.
Poi la scoperta. Una grave patologia psichiatrica con cui fare i conti, lui e loro.

No, non sono un’esperto, ma la propensione genetica della malattia si era assommata con la difficile storia dell’abbandono.
Una mina inesplosa che aspettava solo di deflagrare.
Li avevo persi di vista quando, con grandissimo sacrificio, avevano deciso di allontanarsi dal paese in cui abitavano: troppa competizione sportiva fra i ragazzi compagni di classe di Gianni, troppi giudizi taglienti su di loro da parte dei vicini.

L’allontanamento non era servito, anzi.
Avevo saputo da conoscenti comuni degli scatti di violenza, dei ricoveri in psichiatria, delle botte date alla madre, ritenuta colpevole di chissà quali crimini.
Lo psichiatra aveva capito bene la situazione: accusava gli unici che lo avevano accolto e amato per non accusare i suoi genitori biologici, o se stesso.

“Da due anni è in una struttura protetta, non lo vediamo ed è bene così, per lui e per noi. Il medico che lo segue dice che ora sta bene, è in un contesto in cui non deve dimostrare niente a nessuno. In qualche modo ha trovato un tragico punto di equilibrio”

L’ho ascoltata con immensa compassione.
Quanto dolore deve portare nel cuore una madre che si è trovata a gestire una situazione del genere? Quanto nel trovare, attorno a sé, solo giudizio e incomprensione? Quanto dolore nel dover fare i conti con il dolore di un figlio speciale, desiderato ed accolto?

“Tu, come stai?”
Accenna un sorriso. Evidentemente nessun, mai,

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