“Siamo guerrieri” recita una azzeccata pubblicità in onda in queste settimane. Lo so. Lo so da sempre. Lo so soprattutto quando, nelle mie peregrinazioni, arrivo in una grande città.
“Siamo guerrieri” penso quando, con Mattia e Marco, dal centro arrivo in periferia, oltre il raccordo, in uno dei quartieri satelliti nati dal nulla. Un’ora di viaggio fra metro, treno e auto. Una folla accaldata e stanca che corre per non perdere una coincidenza, che esce di casa alle sette per tornare ampiamente dopo le otto. Due ore e mezza di viaggio ogni giorno per guadagnarsi il pane e pagare il mutuo, mica per accumulare denari e farsi la villa. Per sopravvivere, per galleggiare. Tutti costretti, nuovi schiavi che cercano di consolarsi con uno smartphone per non pensare di essere condannati a morte.
E penso a quanto la nostra pastorale sia distante dalla quotidianità di una vita che corre, dalla vera periferia, da questa metro che odora di sudore e stanchezza.
“Siamo guerrieri” penso quando parlo con don Alfio e i suoi collaboratori, unico presidio di un grande quartiere che ancora deve darsi un’identità: una bella chiesa nuova e una comunità tutta da costruire. E mi racconta la vita di un prete romano che passa il giorno a lavorare e a correre per arrivare alla sera e… iniziare tutto, unico momento ampiamente dopo le nove di sera, per vedere la gente tornata dal lavoro massacrante. E mi viene in mente Luca ad Antiochia, o Paolo a Efeso, piccoli avamposti di speranza in un mondo che ha perduto la propria anima.
“Siamo guerrieri” penso quando Costanza, a Roma per lavoro, mi chiede un consiglio per la sua Napoli. E mi racconta con amarezza che le notizie che ora escono sui quotidiani, quella fertile campagna vesuviana avvelenata da uomini senza scrupoli, industriali del Nord e camorristi del sud, su cui i contadini hanno coltivato per anni, vendendo verdure ed ortaggi avvelenati che provocano una epidemia di tumori nei bambini, loro le danno da quindici anni, incontrando un muro di gomma. E mi chiede come fare per non arrendersi, per non fare come fanno tutti quelli che possono, andarsene, per dare speranza a questa splendida città che si sta suicidando. Le chiedo di aiutarmi a capire perché quegli stessi camorristi abitano nella stessa terra che hanno avvelenato, e bevono la stessa acqua, e muoiono delle stesse malattie invece di godersi i soldi della morte in qualche resort di lusso all’estero. E le dico che stiamo assistendo alla fine di un’epoca, al declino di un impero e, come i cristiani dei primi secoli, siamo invitati a conservare la speranza, operando. Figli della luce in mezzo alle tenebre sempre più fitte.
“Siamo guerrieri” penso, vedendo la gente che passeggia in centro, ai tanti turisti dalle mille lingue che guardano l’opulenza decadente di Roma.
Dalle vetrine intorno a San Pietro, nei mille negozi di souvenir e paccottiglie, Papa Francesco sorride mostrando il pollice, come a dire “tutto va bene”.
“Siamo guerrieri”, se continuiamo a proclamare e vivere il sogno di Dio.
17 Comments