Nello straordinario e complesso racconto giovanneo, esiste un passaggio che voglio sottolineare.
Quando Marta e Maria, sorelle di Lazzaro, abituate ad accogliere il Signore nella loro casa a Betania, sanno della presenza di Gesù, escono di casa, disperate, si affidano all’amico e Maestro.
Il racconto è un crescendo di emozioni, di testimonianze di fede delle sorelle, ma anche di umanissimo sconforto e pena.
Quando Gesù vede la disperazione delle sorelle e della folla, resta turbato, e scoppia in pianto.
All’inizio del vangelo a Giovanni e Andrea, discepoli del Battista, che, su indicazione del profeta, lo avevano seguito e gli chiedevano dove abitasse, Gesù aveva risposto “venite e vedrete” (Gv 1,39).
Ora è Gesù che si fa discepolo, che è invitato ad andare.
Come se, fino ad allora, non avesse visto fino in fondo quanto dolore provoca la morte.
Come se fino ad allora Dio non avesse ancora capito quanto male ci fa la morte, quanto sconforto porta con sé il lutto.
Come se Dio non sapesse.
Come se Dio imparasse cos’è il dolore.
Dio piange, davvero.
E quel pianto ci lascia interdetti.
Quel pianto ci sconcerta, ci scuote, ci smuove.
Dio, ora, sa cos’è il dolore.
Fra poche ore andrà fino in fondo, portando su di sé tutto il dolore del mondo.
Dio e il dolore si incontrano. Non è bastato che Dio diventasse uomo per condividere con noi la vita. Ha voluto imparare a soffrire, per redimere ogni pena.
Ci basta?
Non lo so.
Davanti ad un Dio che condivide, non sempre il nostro cuore si convince, si converte.
Come coloro che vedono il pianto di Gesù.
Alcuni notano l’amore di Gesù per Lazzaro, la sua compassione.
Altri, cinicamente, obiettano: Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?
In queste parole abbiamo tutta la contraddizione dell’essere umano.
Preferiamo un Dio che condivide il nostro dolore o un Dio che ci evita il dolore?
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