Il nome è di quello che ti fa sobbalzare; Jihad. Subito lo abbiniamo alla guerra santa proclamata da alcuni fanatici estremisti musulmani. E, invece, è una parola che significa “sforzo”, “impegno”. Jihad è il nome del nostro autista, una vecchia conoscenza di Daniele. Sono debitamente prevenuto: ogni volta che ho accompagnato un gruppo in Israele uno dei problemi è stato proprio l’autista. Daniele mi ha rassicurato e, in effetti, dovrò convertirmi e cambiare giudizio. Jihad è mio coscritto, e, quando aveva due anni, lui e la sua famiglia si sono trovati in mezzo alla battaglia di conquista di Gerusalemme come controffensiva dell’esercito israeliano alla guerra del Kippur. Come i profughi istriani, come molti in molte guerre e in molte storie, se n’è dovuto andare dalla città vecchia. Suo padre, lungimirante, togliendosi letteralmente il pane di bocca, lo ha fatto studiare presso la scuola tedesca. A vent’anni, non avendo prospettive (io alla sua età ero in seminario a meditare il buon Gesù), si trasferisce in Germania dove lavora per qualche anno. Rientra nel “suo” paese e comincia lo sforzo, la Jihad vera della sua vita: studia da archeologo e da guida turistica ma non gli verrà mai riconosciuto il titolo perché non è cittadino israeliano, pur abitando a Gerusalemme ovest, si sposa con una ragazza della Cisgiordania che, adesso che ha quattro figli!, ancora riceve il permesso di soggiorno ogni anno, infine, disperato, prende la patente da conducente di pullman, gliela negano e ricorre alla corte suprema che gli dà ragione. Sorride, mentre racconta la sua storia durissima: specializzato in storia e archeologia, conosce correttamente l’arabo, l’ebraico, il tedesco, l’italiano e l’inglese. Guida un pullman, ma gratuitamente. Laura, sindacalista del gruppo , salta sulla sedia. Sì, gratuitamente: l’agenzia mette a disposizione mezzo e assicurazione, la paga sono le mance dei pellegrini. Adesso capisco l’insistenza fastidiosa di molti autisti. Daniele mi confida: normalmente racimolano 180/200 euro a settimana, una vera miseria, e arrotondano con qualche percentuale sugli acquisti che fanno i pellegrini nei negozi cui sono portati. Col passare dei giorni cresce l’amicizia e la stima per Jihad. Diventa il nostro angelo protettore: recupera vestiti arabi per le signore che lo chiedono, kefiah, tutto al prezzo di costo, senza farci la cresta, ripesca alcuni di noi naufraghi nel Suq. ll giorno del suo compleanno arriva con due torte gigantesche, contento della nascente, reciproca amicizia. Fa sorridere vederlo scaldarsi nel traffico di Gerusalemme, da buon tedesco che non sopporta il modo approssimativo di guidare degli arabi! Daniele ha un’idea geniale: ci auto-tassiamo e prenotiamo in Italia una macchina per fare il caffè da mettere sul mezzo, in modo che Jihad, oltre alle bottigliette d’acqua fresca, possa anche avere un piccolo ricarico con il caffè per gli italiani fanatici dell’espresso. Quando glielo diciamo esprime una sincera gioia: non è una mancia, è una piccola opportunità per aiutarlo a vivere con dignità e mandare alla scuola tedesca (100 euro al mese!) i suoi figli. Arriva l’ultimo giorno, siamo a Yad Vashem, colgo un dialogo con Daniele: che strano gruppo, il vostro. Di solito porto la gente a vedere solo le chiese, voi avete voluto anche vedere le persone, le nostre sofferenze, capire. Ci facciamo raccontare la sua storia, esordisce, commosso dicendo: “Io sono una persona”. Non è scontato per lui, senza documenti, considerato un intruso da parte di Israele, uno straniero da parte dei palestinesi, che viaggia senza passaporto ma con un visto provvisorio, che non è neppure riconosciuto come profugo perché abita nella sua città di origine, ostinatamente. All’areoporto, il giorno della partenza, tutti, con affetto lo salutano. Alla fine non ce la fa e piange, cosa rarissima per un maschio arabo. Non era mai successo, ci dice un commosso Daniele.
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