Ho un quarto d’ora prima di continuare le commissioni in città, come si usa dalle mie parti. Una delle pasticcerie del centro è a due passi, non resisto. D’altronde la colazione è lontana e magari un croissant ci sta. E poi siamo nel tempo pasquale. E magari poi faccio un po’ di bici.
(Anche voi trovate tutte le ragioni del mondo per giustificare la golosità?)
Stranamente il locale è vuoto. Mi servo della brioche dalla vetrina colma di leccornie e mi rivolgo alla signora dietro il bancone.
“Mi fa un marocchino, per cortesia?”
Dalle mie parti per marocchino si intende una meraviglia con caffè, nutella e schiuma di latte. Da sempre. Non conosco la ragione del nome ma è così.
Lei mi risponde, facendo la spiritosa: “Un mocaccino, vorrà dire, di marocchini ce ne sono già troppi”.
Smetto di masticare il boccone. La guardo. Lei sorride, ammiccando. Di questi tempi il look razzista si porta su tutto.
Vorrei dirle tante cose, ma non ho questa confidenza. Vengo qui da anni, non so nemmeno il suo nome. Ma sempre garbata e gentile. Sono davvero spiazzato. Vorrei chiederle se ama la Fontina, il nostro formaggio dop, perché, da decenni, gli unici disposti a vivere per 100 giorni filati oltre i duemila e qualche, lavorando quindici ore al giorno per mungere le mucche sono proprio i nordafricani e, da qualche anno, qualcuno dall’Est Europa. E se non ci fossero loro niente fonduta o crespelle alla valdostana.Taccio, meglio.
Lei è in visibile imbarazzo.
“Anche se di marocchini ce n’è pochi ormai, ma degli altri tantissimi”
La pezza peggio dello strappo.
Metto lo zucchero nel marocchino o mocaccino, bevo. Chiedo quant’è. Pago. Mi resta un retrogusto amaro in bocca, nonostante la marmellata di albicocche e la nutella.
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