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“La prego signore, mi creda, non è un film!”

L’audio della telefonata fatta da Rahmi, uno dei ragazzi adolescenti rapiti con l’autobus nei pressi di Milano nei giorni scorsi, ai carabinieri, visto il felice epilogo del drammatico e folle evento, fa sorridere.

Perché a implorare di essere preso sul serio è un adolescente che, secondo il nostro consueto modo di pensare, prende la vita poco sul serio. Un adolescente straniero, pur essendo nato e cresciuto in Italia (senza cittadinanza, però). Un adolescente straniero che parla al telefono di un rapimento collettivo. Ma dai!

Onore al milite che l’ha preso sul serio. E che ha capito subito che dietro c’era qualcosa di vero e di drammatico.

Onore a Rahmi, ai suoi compagni di classe che, questa volta sì, si sono comportati come professionisti in una spy story.

Onore ai suoi due compagni stranieri che hanno cercato, inutilmente, di convincere l’autista senegalese che loro erano trattati bene e che si trovavano bene in Italia. Onore agli accompagnatori che hanno avuto l’idea di non stringere con le fascette i polsi dei ragazzi e di far capire di non consegnare tutti i cellulari. Onore ai carabinieri e alla loro straordinaria azione e professionalità.

Non è un film, no.

Le parole che diciamo, le azioni che compiamo, i giudizi che diamo, smuovono ombre, liberano draghi, creano un clima di sospetto reciproco, di accuse, di parole urlate, di paure incontrollate, di mostri che si creano proiettando fuori di noi le nostre paure nascoste.

Meno male che ci sono ragazzi delle medie che ricordano a noi adulti che no, la vita non è un film.

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