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Il suicidio di una persona è sempre qualcosa che ci lascia senza paura. E ci spaventa.

Per quel senso di impotenza che ci lascia ciò che non riusciamo a capire. E che, temiamo, potrebbe contagiare anche noi. Come se potesse esistere una condizione improvvisa e tragica di follia che può farci perdere.

Ma il suicidio di un prete, se possibile, è ancora più devastante.

Mi raggiungono dopo una conferenza. Li conosco da tempo. Mi parlano del tragico suicidio del loro parroco, sei mesi prima. Alla fine della messa è andato in canonica e si è imbottito di psicofarmaci. Lo aspettavano per pranzo.

Nessun preavviso evidente, nessun particolare evento traumatico, nessun segno percepibile. E allora la ridda delle supposizioni, delle idee, delle teorie. Per darci una ragione.

Un gesto pensato meticolosamente. Sull’agenda personale hanno trovato, dopo quella data, solo pagine bianche. Da mesi non segnava appuntamenti, matrimoni, battesimi, dopo quella data che aveva scelto per andarsene.

Sono scosso. L’indomani raggiungo un caro amico prete che lo conosceva bene. Mi fornisce una sua versione dei fatti, ipotesi, congetture, ma alla fine concordiamo che è impossibile capire.

E non voglio farlo io. O fare il moralista. O suscitare in tutti un senso di colpa perché non ci occupiamo dei preti.

Voglio solo invitarmi a occuparmi di me stesso.

E invitarvi a fare altrettanto.

Scopro che era un prete generoso, aperto a tutti, che si faceva carico. Non un prete da sacrestia e pizzi. Con i suoi limiti caratteriali, ma vero. E, mi dicono i suoi collaboratori, travolto dal dolore degli altri, dal senso di impotenza, dalla stanchezza interiore.

Come un compattatore che svuota i cassonetti e poi non trova una discarica in cui scaricare l’immondizia che porta nel cuore.

Ma, e lo vedo ogni giorno nel mio pellegrinaggio in giro per l’Italia, una parte di questo dolore la gioca l’idea di noi stessi che abbiamo. Il ruolo che ci danno, che ci diamo.

Il buon parroco, la buona moglie, il padre prefetto.

Un’idea alta, generosa nel caso di molti preti. Difficilmente ho incontrato preti che hanno fatto quella scelta per imboscarsi, per soldi, per manifesta incapacità a stare nel mondo. Spesso, quasi sempre, c’è, almeno inizialmente, uno slancio totale, assoluto nel volersi donare. Salvo poi scoprire di non farcela. Salvo poi vedere l’entusiasmo sgretolarsi dietro i colpi di maglio della quotidianità.

E qualcosa del genere vedo nella generose coppie che si ispirano ai valori cristiani e che si proiettano nell’iper-uranio, salvo esplodere alla prima vera difficoltà.

Ecco, solo questo: la nostra è la fede dell’incarnazione.

Del Dio che si fa odore, voce, vista, tatto. Che sa cosa significa non dormire o avere mal di stomaco. Che sa piangere e scoraggiarsi. Che sa essere un mangione e un beone. 

E che non vuole angeli immolati, efebici cristiani virtuosi ed irrealisti.

Solo questo.

Dio ama quello che sono, sul serio. E questo devo amare.

Quando lo capiremo?

 

 

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