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(Come un dono ricevo questa testimonianza di Alice. Grazie alla sorella Gaia che me l’ha donata e che mi autorizza a diffonderla. Solo per aiutare le tante “Alice” che abbiamo accanto a noi ad essere guardate in maniera diversa, speciale, perché sono persone speciali. Perché siamo tutti pazzi. Alice, un anno fa, non ha più avuto la forza di combattere i suoi demoni e se n’è andata. Sono certo che ha incontrato quel Volto che a tratti riusciva a intravvedere in mezzo alle sue ombre. Una grande giornalista che faceva la cassiera. Una grande anima inquieta e pura)

 

VIAGGIO IN PSICHIATRIA, di Alice Melloni :”Tutti gli uomini sono pazzi, e chi non vuole vedere dei pazzi deve restare in camera sua e rompere lo specchio.” Alphonse De Sade (1740-1814), scrittore francese.

Entro in scena con grida talmente disperate e rabbiose al tempo stesso da far gelare il sangue nelle vene. Da far venire voglia di prendermi in braccio come una bambina, credo, accarezzandomi la testa e tranquillizzandomi con l’ovattato “Va tutto bene”. O forse questo è solo il mio desiderio recondito.
Urlo frasi sconclusionate, parole, parolacce ma soprattutto dei “No”, profondi e malinconici, esagerati e che ancora sperano di essere esauditi.
L’agitazione e l’angoscia mi fanno muovere a scatti, convulsamente. Mi fanno cercare una forza che non ho, mi fanno agitare come una mosca presa per le ali, che non può più volare via. Intrappolata da una forza troppo grande. Ho solo una certezza addosso: non voglio entrare in quel posto, non di nuovo.
E’ vero, è passato del tempo dall’ultima volta ma non abbastanza per dimenticare. Non abbastanza per far si che il passato riaffiori senza ferirmi.
La disperazione è totale, completa. Le lacrime non bastano ad esprimere il senso di sconfitta che provo a ritrovarmi in PSICHIATRIA.
Psichiatria, psichiatria. Già il nome fa paura. Tocca quella corda così sottile e fragile nell’uomo che sembra lì pronta ad essere spezzata per far uscire la pazzia. Quell’incomprensibile condizione che è in tutti, in qualche modo, in qualche forma, ma di cui nessuno è pronto ad ammettere la presenza. Io per prima.
Mi aggrappo all’infermiere, mi appello alla sua umanità ma lui non è altro che un qualsiasi impiegato che ha a che fare con una qualsiasi paziente. E i metodi sono gli stessi per tutti. Alla fine smetto di combattere, come la mosca che si ferma ormai consapevole della sua impotenza. Tra l’altro non ho più voce per gridare e sono spossata: dagli episodi, dall’ansia, dall’attesa, dalla frustrazione e dalla paura.
Un esercito di testoline si affaccia alle porte delle camere verso il corridoio. Li ho svegliati perché l’ora è tarda e il mio ingresso non è stato silenzioso. Mi girano intorno, mi osservano. Rimango sdraiata per terra e tremo. Sono terrorizzata. Sono anch’io vittima di un mondo che mette i “matti” alla gogna, più lontani possibile dalle campane di vetro dei “normali”, che li considera alla stregua di spazzatura, per i più cordiali al massimo personaggi divertenti. Solo per pochi sono persone toccate da drammi forti in cui l’equilibrio del meccanismo si è spezzato, in cui le braccia si sono rotte sotto il peso di eventi troppo grandi da sopportare.
Dopo un tempo eterno qualcuno mi si avvicina, mi aiuta ad alzarmi, mi tende una mano tremante e mi guarda con occhi spenti ma volenterosi. Uno di loro corre in camera e mi porta un sacchetto trasparente pieno di cioccolatini, un altro mi offre una sigaretta, tutto quello che ha. E’ di loro che ho paura, mi chiedo? E’ da loro che voglio fuggire? Sono commossa. Insieme agli infermieri imbandiscono una cena di mezzanotte. Poi mi osservano mangiare tutti in circolo. Mi fanno coraggio a modo loro. Sono stordita. Mi sento in un attimo a casa molto più che nel mio appartamento, tra le mura sola dove i fantasmi diventano assassini pronti a colpirmi. Poi lo strano esercito riprende a circolare. L’evento è già vecchio e la nuova compagna è già parte del gruppo, evidentemente. Si mettono a fumare, tornano a dormire, riprendono a camminare su e giù per il corridoio: unico slargo, unica strada e unica risorsa. Un tipo pieno di tatuaggi, anche in faccia, mi chiede che cos’ho, perché sono lì. Guarda le medicazioni che ho sui polsi. E’ brusco ma penso che non voglia esserlo. Non so cosa rispondergli. Come si traduce in parole quello che ti succede? Come si riassume una vita che ti porta lì una sera, in una frase? “Va male” gli dico, “Non era così che me l’immaginavo”. Cerca di farmi coraggio. Se ne va seguendo chissà cosa. Poi mi si avvicina un ragazzo dall’aspetto più che sano, mi fa la stessa domanda, gli rispondo allo stesso modo. Sento, però, di essere sulla sua stessa lunghezza d’onda e allora aggiungo: “Sono normale io, non sono da ospedale”. Capisce cosa gli voglio dire. Sorride tristemente e mi dice che anche lui è normale, che la sua ragazza l’ha lasciato e l’hanno trovato lungo disteso sul pavimento dopo una bevuta senza freni; che è lì da tre settimane, che è naturopata.
Già pratica delle procedure mi lascio riempire di calmanti senza oppormi. Non mi conoscono e non sanno come mi comporto dunque tendono ad abbondare e io non ho voglia di reagire. Ho voglia di dormire senza più pensare a nulla, non ho voglia di fare congetture su quello che succederà. Voglio essere trascinata giù, come in fondo al mare. Nel blu profondo. I polsi mi bruciano, ma di più mi brucia il dolore che mi sono imposta. Il cuore è triste. Mi addormento accanto a una donna di cui non so niente, non si è svegliata lei. E’ rimasta lì come morta.
La mattina dopo, la sveglia è all’alba, come sempre negli ospedali. In camera siamo in quattro. La mia vicina di letto è rasata e agitata, corre avanti e indietro, sembra un cavallo imbizzarrito, di fronte, invece, c’è una vecchia e poi una ragazza, ha l’aria distrutta. Non dimenticherò mai il suo sguardo, le si legge in faccia che la vita è stata crudele con lei.
Io sono lì e sono sola, nessuno mi bada più. I problemi ritornano dal blu a farmi compagnia. Non ho il cellulare, mi è stato sequestrato, non ho niente con me. Ho solo un paio di pantaloni della tuta addosso e un maglione sporco. Ero a casa quando ho iniziato a “stare male”, quando il flusso dei pensieri non ha trovato più una via d’uscita e quando ho cercato aiuto in mio padre. Ero a casa quando lui mi ha attaccato il telefono in faccia, quando mi ha ripetuto che non poteva aiutarmi e mi ha fatta sentire persa nel mondo. Con il terreno che si sgretolava sotto i piedi. Ero a casa quando è arrivata l’ambulanza con la sirena e mi ha portata via.
Invece ora sono lì e non sono al lavoro e non ci sarò per un po’ e questo mi fa salire l’angoscia. Mi ricomincio ad agitare.
Poi, tutti zitti: orario di visita. Quando è il mio turno fanno uscire le altre degenti dalla stanza. Mi si avvicina un medico smilzo, con gli occhialini, mi mostra un timbro con scritto il suo nome. Penso: “Non me lo può dire a voce?” Inizia a farmi domande di routine e la mia ansia cresce: cosa può fare lui per me? Non provo particolare simpatia verso di lui. Resto abbottonata. Non credo sia utile cercare supporto in lui anche se, in fondo al cuore, spero che possa aiutarmi. Gli racconto a grandi linee la storia della mia vita. Difficile. Mi fa male ed è oggettivamente dolorosa. Lui non si scompone. Vuole sapere del mio presente. Gli dico che sono finita in un momento d’impasse. Che faccio la commessa quando vorrei fare la giornalista. Che non ho amici. Che ho un rapporto di dipendenza da mio padre che non mi vorrebbe neanche vedere. Che mi sento sola al mondo. Che non vedo futuro e che il passato non mi lascia tregua. E’ affettato. Rimane solo un po’ scosso quando alla domanda di come mai avessi dei rasoi in casa gli rispondo secca: “Per emergenza, semmai posso tagliare con la vita”. Come i soldati delle Tigri Tamil cingalesi, che si tengono in tasca una fiala di cianuro in caso di cattura.
Si dilegua.
Inizia una giornata lunga, faticosa. Piena di sbalzi d’umore miei, piena di sbalzi d’umore degli altri. Giro per il corridoio senza sapere dove altro andare. Qualche uomo mi guarda insistentemente, me ne frego, passo oltre. Vado in bagno, mi lavo. Fa tutto schifo ed è tutto molto squallido. Le pareti vecchie e ingiallite, i bagni, le finestre, la sala che fa da refettorio. C’è una cyclette, è rotta. E’ impossibile essere felice in un luogo così. Non c’è niente che dia gioia. Non c’è niente da fare. Non c’è nessun programma per la gente che sta lì. Gli unici orari fissi sono quelli dei pasti e delle terapie. L’unico movimento, la visita di un medico al mattino. Per il resto non esiste nient’altro. La gente sembra subire questa inedia. Sembra ammuffita e consumata. Sembra senza speranza, sembra rassegnata. Mi siedo e osservo. Mi fanno pena tutti, dal primo all’ultimo. I loro comportamenti sono i classici dei matti che s’incontrano per strada. Modi di camminare strani, parole al vento, urla, frasi senza senso, abbigliamento completamente casuale, magari con una calza al collo o un bigodino in testa. Mi si avvicina una donna e mi chiede se le posso tagliare i capelli, le dico di si, andiamo dall’infermiere e non mi dà un paio di forbici, mi risponde male e io peggio. Mi risiedo sulla panca e arriva il naturopata. Ho così bisogno di parlare che non smetto per un’ora. Mi dà sollievo. Entriamo in confidenza facilmente. In quelle situazioni è normale.
Il pomeriggio lo passo a dormire. La sera, alle 10, spengono tutto e io sono sveglia, nervosa e voglio chiamare mio padre. E’ un giorno che sono lì e nessuno ha notizie di me e nemmeno sembra interessarsi alla cosa. Vado a cercare un infermiere e gli dico che voglio andarmene, mi ride in faccia. Mi metto a urlare e risveglio tutte le testoline. Qualcuno questa volta protesta ma io non mi placo. Non c’è pace finché non mi vengono somministrate 20 gocce di Minias. La mattina il medico è informato su quello che è successo la sera prima. Mi sembra più collaborativo e parliamo. Mi chiede altre informazioni. Mi dice che dovrò prendere dei farmaci e che tra qualche giorno uscirò. Mi tranquillizza un po’. Ma dopo due ore sono di nuovo agitata. Lui è ancora lì, mi riceve questa volta nel suo studio. “Dottore ho paura, non ce la farò mai. Non voglio tornare fuori e non voglio stare dentro. Non so dove andare né cosa fare…”. E’ allora che succede qualcosa. Cade finalmente la barriera che avevo alzato e mi apro veramente. Entriamo in sintonia e io decido di abbandonarmi a lui come un naufrago che quasi morto vede i soccorsi e allora sa che non morirà e si lascia portare a riva distrutto ma felice. E’ sicuro quel medico, che tutti i casini della mia vita siano risolvibili. Vede tutto da un punto di vista estremamente razionale, non sembra spaventato, nemmeno preoccupato. Mi offre soluzioni. Sa che non è facile ma sa anche che ne posso uscire. E’ molto intelligente e mi colpisce. Forse rappresenta quello di cui ho bisogno: una figura solida a cui appoggiarmi in un momento di tempesta.
Grazie a lui riprendo a poco a poco fiducia.
Nei pochi giorni successivi i colloqui diventano sempre più profondi e sinceri. La voglia di vivere torna a fare capolino come una pianticella che sbuca piano piano dal terreno e io cerco in tutti i modi di nutrirla.
Penso a come ricominciare. Guardo fuori della finestra. Assorta nei pensieri. C’è un cantiere di fronte e subito dopo la casa di mio padre. Il caso ha voluto mettermelo anche lì così vicino ma così irraggiungibile. Da questo punto di vista riesco quasi a prenderne le distanze. Riesco quasi a rimettere a posto le carte in tavola. A vederle con lucidità.
Adesso i miei compagni di reparto interagiscono con me, sono diventata grande amica del naturopata e anche della cavalla imbizzarrita. Si chiama Manuela e non fa altro che correre dappertutto tutto il giorno. Ogni tanto si ferma a far due chiacchere. Parliamo di cose con cui non potrei parlare con nessuno. Senza maschere. Ogni tanto interviene anche il naturopata. Formiamo uno strano terzetto. La ragazza dirimpetto al mio letto, invece, non trova pace; viene spesso incatenata mani e piedi con le manette. La prima volta che vedo questa scena non riesco più a smettere di piangere. Per gli infermieri non sembra esserci nulla di strano.
Il giorno del mio congedo tanto atteso, arriva alla fine troppo presto. Io non mi sento pronta per ributtarmi nel casino del mondo e neanche nel casino di me stessa. Il ricovero è stato come un foglio bianco nella mia vita, una pagina non scritta sospesa tra i capitoli stracolmi di episodi. Ma lo psicofarmaco che mi hanno dato inizia a fare effetto e le rassicurazioni del dottorino bastano ad incoraggiarmi. Saluto i miei compagni e penso che voglio loro bene. Non credo che rivedrò mai più nessun personaggio di quell’episodio di vita ma è stato bellissimo conoscerli. Emanuela mi regala un fiore finto e mi dice che si è innamorata di me. Rido e esco. Consapevole solo del fatto che l’affetto umano è la cosa più bella del mondo e che io ce l’ho fatta un’altra volta a rialzarmi, aiutata dalle braccia di sconosciuti e dalla forza che ho trovato in me. E per questo mi amo.

4 Comments

  • Gaia, 28 Gennaio 2018 @ 11:39 Reply

    Grazie Paolo della condivisione!

    • Pino, 29 Gennaio 2018 @ 12:20 Reply

      Ciao Paolo Grazie per aver condiviso questa storia finita bene a quanto pare .Io ho lavorato 30 anni in un servizio di salute mentale e casi come questo ne ho visti tanti però mi sono emozionato leggendo questa storia simile a tante altre piena di sofferenza e di speranza chi c’è la fa purtroppo non molti non c’è la fanno e restano in quei locali in cerca di un sorriso o di una mano da stringere un
      abbraccio tante volte negato per paura del diverso eppure basta poco non bisogna essere madre Teresa basta poco per dare speranza un sorriso una stretta di mano un abbraccio non chiedono molto. AI tanti che non sperano più dico coraggio .

  • Stefano Melloni, 28 Gennaio 2018 @ 22:48 Reply

    Grazie Paolo per aver dato voce alla preghiera di Alice pubblicando il suo articolo. Speriamo che come lei ha richiesto, possa servire per migliorare gli ospedali psichiatrici. Speriamo che venga letto e apprezzato da chi lavora in psichiatria a contatto con i “matti”

  • Irene, 7 Febbraio 2018 @ 23:32 Reply

    È una storia bellissima. Mi fa pensare ad un evento che ancora oggi mi fa soffrire. Vi racconto la mia storia. Mi chiamo Irene, ho 33 anni e abito a Torino. Nel Luglio dell’anno scorso (2017) ho lavorato come addetta al volantinaggio davanti all’ospedale San Luigi Gonzaga di Orbassano.
    Mercoledì 5 Luglio durante il mio orario di lavoro scese un paziente dell’ospedale per fumare una sigaretta. Mi chiese un volantino per curiosità. Sorridendo mi disse che quel volantino non poteva interessargli perché riguardava un servizio per anziani e che essendo giovane non ne aveva bisogno. Mi chiese come mi chiamassi. Gli dissi che mi chiamavo Irene e avevo 33 anni. Gli chiesi quanti anni avesse lui e mi disse di averne 32. Gli dissi sorridendo che sembrava molto più giovane. Mi disse di essere ricoverato in psichiatria.
    In quel momento il mio atteggiamento cambiò. Mi domandò se avevo un profilo su Facebook. Gli dissi che ce l’avevo ma lo usavo poco. Notai una profonda tristezza nei suoi occhi. Mi disse che doveva tornare in reparto ma che sarebbe tornato poco dopo a farmi compagnia. Purtroppo non torno più ed io dovetti andare via prima a causa di impegni familiari. Mi colpì moltissimo il suo sorriso. Nonostante il passare dei mesi non dimenticai mai quell’incontro. Ho un grande senso di colpa per come mi sono comportata. Avrei un forte desiderio di incontrarlo ma nessuno può aiutarmi e questo mi sta facendo male ogni giorno sempre di più..

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