L’aeroporto internazionale di Ben Gurion è a poco più di trenta chilometri verso la costa, in linea d’aria. Ma qui, dalle colline di Samaria, in Cisgiordania, è come se fosse sulla luna. Aboud ci accoglie una domenica mattina e per arrivare alla chiesa parrocchiale di questo villaggio di tremila abitanti chiediamo a un passante: il navigatore non sembra orientarsi. Facciamo lo slalom fra qualche mucchio di pietre poste in mezzo alla strada; su alcune case qualcuno ha dipinto una bandiera palestinese e il ritratto di Arafat.
Di fronte a noi, in pieno territorio palestinese, sorge un insediamento israeliano.
Si inizia sempre così: per ragioni di sicurezza. In una notte l’esercito costruisce un campo, lo recinta col filo spinato. Nessuno chiede permesso e se il terreno era tuo pazienza. Poi, dopo qualche anno, i prefabbricati sono sostituiti dai palazzi e i militari dai coloni civili, sempre i più radicali, sempre i più intolleranti. Una strada privata li conduce all’insediamento e un cartello minaccioso in tre lingue intima ai palestinesi di non percorrere quella strada riservata agli ebrei.
Uno strazio.
Dal pullman molti fotografano mentre cerco di spiegare l’inspiegabile. Ma il filo spinato che ritaglia la cima di una collina vale più di mille discorsi.
Siamo in ritardo ma non ci sono problemi: Abuna Youssef, il parroco, sa che il concetto di tempo, da queste parti, è piuttosto fluido. La messa parrocchiale è, come sempre, un evento per i miei pellegrini. Insieme a noi un piccolo gruppo di inglesi saliti fin quassù.
I “miei” pellegrinaggi prevedono la celebrazione dell’eucaristia solo di domenica e solo in una parrocchia. Dal mio punto di vista (parziale e discutibile) non ha alcun senso celebrare messe in ogni luogo che conserva la memoria del Maestro eccetto dove egli ancora abita. Inorridisco all’idea che molti pellegrini italiani, oggi, “prenderanno” messa in albergo.
Alla fine della messa ci aspetta la spiegazione di Abuna, poi il pranzo. Facciamo in tempo a visitare, a cento metri, la straordinaria chiesa ortodossa, bizantina, fondata a quanto dicono, dalla stessa regina Elena di ritorno da Gerusalemme. Nel villaggio la metà degli abitanti sono musulmani e l’altra meta’ cristiani e questi ultimi sono divisi fra latini, come si dice qui, e greci.
Il pope palestinese ci dà il benvenuto, parole calde, le sue, di chi vive quassù da eremita.
I cattolici una o due volte al mese ricevono la visita di qualche gruppo come il nostro.
Si scambiano idee, si porta qualche euro, ossigeno per un paese che si spegne.
Lui, evidentemente, non ha ancora questa fortuna.
Chiede di pregare per loro, di tornare.
Gli occhi gli luccicano quando lo abbraccio.
Sono una briciola davanti a lui. I libri, le conferenze, l’evangelizzazione, la mia fama di carta sono nulla davanti alla fedeltà crocefissa di questo prete che ha scelto di stare chiuso nel recinto con le sue pecore.
Piango interiormente.
Torniamo in parrocchia, Abuna Youssef parla. Lo sento più dolente di tanti anni fa, quando era parroco in Galilea. Qui è diverso.
Nessuna speranza, nessun futuro, nessuna possibilità.
La gente vive di niente e il poco che aveva, ulivi, acqua, è ora condiviso forzatamente con i coloni.
Racconta di un giovane del paese che la scorsa settimana è stato ucciso da un proiettile sparato dai soldati israeliani: si era avvicinato troppo al recinto.
Ci fa vedere delle immagini orribili: ulivi centenari sradicati dalle ruspe per far posto alla strada dei coloni.
Soffro. Come gli altri.
Eppure le sue sono parole di speranza: non arrendersi, seguire la verità, non lasciare che la vendetta prevalga. Insieme alla sua comunità abbiamo letto il vangelo della vedova di Naim. Nessuno dei suoi parrocchiani potrà mai vederla, oltre il confine.
Qui è come stare in uno zoo. In gabbia.
Se Gesù ha resuscitato il figlio della vedova forse avrà pietà anche di questa gente, dice.
Torniamo a Gerusalemme in silenzio.
Domani arriva Obama.
E parlerà di amicizia e di alleanza. Bene, giusto, corretto.
Vorrei solo che si smettessero di costruire insediamenti e che si decidesse, infine, di applicare le risoluzioni ONU perché due popoli vivano accanto, ognuno nel proprio Stato.
Vorrei solo che infine Israele ammettesse che esistono altri uomini, da queste parti.
Vorrei che si smettesse di confondere le proprie opinioni con volontà di Dio. Che certamente non è la sofferenza.
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