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L’essenza del cristianesimo è mettersi nei panni degli altri, ecco la conversione, il più grande atto d’amore per sua natura umanizzante, il suo carisma (…)

Prendo questa citazione da una delle tante mail che ricevo quotidianamente da parte di una arguta pensionata torinese mia lettrice. Mi spiace di non poter trascrivere integralmente la sua garbata e densa lettera; leggendola non potevo non sorridere e benedire quel grande uomo di Dio che è stato il Cardinale Pellegrino e ringraziare il Signore e Maestro Gesù per i tanti (buoni) pensionati che – come lei – custodiscono una fede così fresca ed essenziale.
Condivido pienamente il suo pensiero ed il suo forte richiamo ad incarnare la nostra fede nella concretezza. Gesù si identifica nei poveri e – in effetti – il diventare discepolo significa riconoscere il suo volto nel povero.
Una delle difficoltà che incontro più spesso nell’essere discepolo è proprio il passare dalla fede teorica, dalla vaga appartenenza al cattolicesimo, all’esperienza del volto di Dio manifestato in Gesù di Nazareth. E’ la dura lotta della conversione, del prendere atto che la nostra natura umana tende, spontaneamente, a proiettare addosso a Dio le proprie comodità e le proprie paure e che abbiamo bisogno di aiuto, di sostegno (di grazia, si diceva una volta) per accogliere la luce e rileggere la nostra e l’altrui Storia.
La fede parte tutta da quest’incontro misterioso e travolgente che avviene nel cuore del discepolo, ieri come oggi, e nel cammino di discernimento successivo che fa passare questo primo incontro, questa travolgente emozione, ad un’appartenenza più adulta, più matura.
Mi pare che le nostre comunità fatichino a dire l’essenziale, che le nostre parrocchie tendano a conservare più che ad annunciare, che abbiamo urgenza di invocare lo Spirito e lasciarlo lavorare perché ci indichi strade nuove. Non è facile, ovvio, annunciare Gesù a chi ne sa già fin troppo, a chi è convinto di possederlo e di conoscerlo, ma non bisogna scoraggiarsi.
Ognuno di noi (scrivente incluso) ha accolto il Vangelo grazie alla tesimonianza credibile e affascinante di qualche cristiano, ciascuno si è avvicinato a Dio grazie al volto bello e radioso della Chiesa. Ma oggi è difficile, nelle nostre città, incontrare questo volto. Intendiamoci: ci sono migliaia e migliaia di discepoli, laici, religiosi, preti, che vivono con pienezza e luminosità la propria appartenenza al Vangelo, ma sono dispersi, travolti dalle mille emergenze, dalle pastoie clericalburocratiche, dalle mille cose che una parrocchia deve fare. Tutto è urgente, tutto è necessario, dalla catechesi ai ragazzi alla preparazione al matrimonio, tutto è troppo per le nostre comunità. Le parrocchie sono rimaste intatte nella loro struttura organizzativa, anzi sono cresciute a dismisura con annessi servizi, ma la gente intorno è cambiata, non vive più una reale appartenenza al Vangelo; la celebrazione domenicale non è più l’incontro gioioso della comunità dei discepoli, ma luogo di prima evangelizzazione (preti in ascolto: forse dovreste accorgervi di questo cambiamento per cambiare linguaggio, o no?).
Come fare? Tenere duro, ovvio, e inventarsi qualcosa. Tenere in piedi la baracca come servizio obbediente alla realtà e, nel contempo, creare dentro le nostre parrocchie dei luoghi semplici di comunione, degli spazi per respirare: la preghiera (breve!) quotidiana prima di andare al lavoro, una meditazione della Parola settimanale, forme di vita comunitaria semplice tra preti e famiglie. Insomma ricreare la condizione della piccola comunità. Sono rimasto impressionato dalle dichiarazioni del defunto Cardinale di Parigi, Loustiger, che in un’intervista (Paris Notre Dame, 19 juin 2003) afferma di voler creare delle nuove parrocchie nel centro storico di Parigi, parrocchie di vita comunitaria che offrano un luogo di incontro per i pendolari della Banlieu, che sfruttino spazi nuovi (la pausa pranzo) per costruire comunità legate al desiderio più che dal territorio.
La scoperta del Maestro, la sua frequentazione, la celebrazione gioiosa e incarnata della sua presenza ci porta a crescere nell’amore. Matteo al capitolo 25 del suo Vangelo, d’altronde, ce lo ha detto con disarmante semplicità: saremo giudicati sull’amore. Innamorarsi di Cristo significa innamorarsi dell’umanità (propria e altrui), cambiare lo sguardo sugli altri, diventare sorriso di Dio per il fratello che soffre. In questo possiamo dire con orgoglio (rispolveriamo un po’ di sano vanto di appartenenza, d’ogni tanto!) che nel silenzio e con verità, ogni giorno decine di migliaia di persone, in nome del Rabbì di Nazareth, si piegano sull’umanità ferita versandovi l’olio della consolazione e il vino della speranza…
Tornare all’essenziale, quindi, cioè al Maestro Gesù annunciato e celebrato, significa sfoltire dalle nostre parole e dalle nostre celebrazioni ciò che è superfluo, compiere quel gesto straordinario – tipicamente cristiano – di far incontrare fede e cultura, una cultura, la nostra, ormai svuotata dall’essenza del Vangelo. Essenza che – condivido con lei – è l’amore verso gli uomini riconosciuti fratelli.

4 Comments

  • manuela del savio, 23 Ottobre 2012 @ 11:00 Reply

    Io penso che si debba ricominciare dalla gioia. L’ingresso della grazia nella nostra vita è pura Gioia, è gioia la condivisione. Come pura la com-passione, per rileggere il senso della vita e del mondo in una chiave diversa. In tal caso è bello pregare per ringraziare, molto più bello che per chiedere!

  • fabiana, 23 Ottobre 2012 @ 12:31 Reply

    Io continuo a dire che siamo tutti poveri …
    Accogliere l’altro, chiunque sia, non è così facile, lo sapeva perfino Gesù!

  • Anna (da Nicodemo), 24 Ottobre 2012 @ 21:24 Reply

    Si cerca il Signore per ricevere, Il Signore cerca noi per dare … ecco (forse) perchè a volte non ci si incontra.

  • Ausilia Riggi, 28 Ottobre 2012 @ 16:28 Reply

    Grazie di ciò che scrivi. Sono in perfetta sintonia, Ausilia Riggi

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