Mio figlio J ha la sua classica faccia furiosa. Da quando siamo usciti dalla piscina non parla e ha le lacrime di rabbia negli occhi. Conosco bene la ragione di questa rabbia: durante il corso di nuoto la maestra ha fatto fare alcune gare fra i bimbi. Jak nuota bene, ha vinto anche qualche duello ma, alla fine, è arrivato secondo. Un’onta.
So che il senso della competizione nei maschi è enorme, ma qui rasentiamo il patologico. Io e L ci guardiamo, si tratta di attuare una tattica di contenimento. Inzia lei, tipico approccio materno: “L’importante è saper nuotare, sei bravo, quanto arrivi non importa!”. Nessun risultato. Provo io, tecnica maschile: “Secondo? Io non sono mai arrivato così in alto in tutta la mia vita! Secondo è un risultato straordinario!”. Niente da fare.
Sto elaborando rapidamente un pensiero filosofico sulla natura umana e uno pedagogico su come uscire da questa impasse.
Jak riflette, sa che non può fare l’antipatico ad oltranza perchè poi esce fuori l’orso selvatico che c’è in me e sono guai.
“In realtà eravamo pari con quella bambina, poi ho pensato che, poverina, si sarebbe intristita e l’ho lasciata vincere, ho fatto una buona azione”.
Io e L ci guardiamo estereffati: una cosa del genere non sta né in cielo né in terra.
L sorride e chiede: “Ma è vera questa cosa?”
Jak, deciso: “No!”
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