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I due ragazzi possono avere un po’ meno di trent’anni. Uno è tunisino, l’altro pakistano. Il tunisino sorride spesso, è gioviale, racconta volentieri di sé e delle sue vicissitudini. Il ragazzo pakistano è più guardingo, forse più timido. Nella piccola stanza col loro educatore e con don Matteo parliamo del più e del meno,

Il ragazzo tunisino racconta di essere sbarcato in Italia in tuta da lavoro, da carrozziere. Era appena uscito dall’officina quando l’avevano avvisato che era il suo turno di partire, di corsa. In Italia lo aspettava un lavoro, sperava. C’era, il lavoro, ma non era quello di riparare le automobili, ma di smontarle per essere rivendute.

Il pakistano non parla della sua condanna, ma non importa molto, in fondo. Sono qui perché hanno chiesto di essere affidati a questa piccola struttura che offre accoglienza e rieducazione vera. Altri come loro hanno finito di scontare la pena qui, imparando a vivere, a rinascere, a giocare il secondo tempo di una partita persa malamente.

Mi stupisco quando compatiscono le guardie carcerarie che fanno lavorare troppo e che guadagnano poco. “Sono loro i veri carcerati a vita” dicono. Poi è il momento delle cose belle: il tunisino sa fare bene il pane arabo e don Matteo ha preparato un’attività in parrocchia dove insegnerà agli adolescenti a farlo. Gli brillano gli occhi, chiede quanti saranno, si vede che è orgoglioso.

Il pakistano aspetta con ansia la decisione del tribunale, non vede l’ora di venire qui, di provare a ricominciare, meglio, questa volta.

Daniele mi racconta la situazione tragicomica di uno dei due ragazzi: ha un datore di lavoro pronto ad assumerlo, gli vuole un sacco di bene e lo tratta come un figlio, dopo averne provato la bontà per diversi mesi. Ma non ha il codice fiscale, perchè, essendo agli arresti domiciliari con obbligo di firma, non è residente in carcere. Quindi: la sua firma vale per dimostrare che rispetta gli obblighi, ma non vale per avere una posizione fiscale e pagare le tasse. Misteri della burocrazia.

Al pachistano va meglio; da tre anni lavora in carcere per una cooperativa e guadagna qualche soldo alla fine del mese: non ha il permesso di soggiorno ma la busta paga con trattenute fiscali. Secondo mistero della burocrazia italiana.

Si respira una timida speranza e li guardo mentre si accalorano per capire come risolvere questi intoppi.

Che bello.

12 Comments

  • Vera, 7 Marzo 2012 @ 22:16 Reply

    Dio ha creato il giardino. Bello, profumato, ricco di beni, libero: per tutti.
    Noi abbiamo fabbricato recinti-cortili-aree protette-aree riservate-aree esclusive.(Esclusivamente nostre)
    Le sale d’attesa comuni e le sale per i Vip. (diversamente arredate e attrezzate)
    Con barriere-frontiere-permessi di soggiorno-e-visti e documenti da rinnovare di continuo. (flusso continuo di soldi per dimostrare alle autorita’ che esistiamo… e che si’, dobbiamo pagare per questo…)

    Nel mondo le persone non possono muoversi libere. No!
    Mille leggi e vincoli di varia natura, ma soprattutto di carattere economico e politico, limitano la circolazione degli uomini nel giardino di Dio.
    (quell’Eden che era stato creato bello ricco e libero… e che ora geme di dolore con noi)
    eppure…
    la gente ancora oggi si affanna per venire in Europa, “nei paesi ricchi”, e fa cose assurde per tentare di arrivare in Europa… la speranza e’ forte e tenace, e a volte bugiarda o ignorante… mentre gli europei soffrono a casa loro… e molti devono andare via, per il mondo…

    sto pensando al solito vecchio problema: come insegnare a pescare, e non solo a dare il pesce; come allevare galline, e non ad avere un unico uovo in mano! la frittata triste di un giorno… Come poter piantare dei semi in terra libera e vederli spuntare e non essere costretti di anno in anno a ricomprare i semi dalle multinazionali che ne vantano il “brevetto”… come dare da bere all’umanita’, con serena costanza, acqua che disseta e corpo e anima….

    Ma sappiamo noi come si fa a continuare a pescare?
    (Nei mari poveri, nelle terre aride, nei regimi senza liberta’ per uomini E donne)
    E c’e’ ancora qualcosa da prendere nel mare comune, aperto a tutti?
    (Slegato e lontano dalle reti delle varie capitanerie … )

    A parte il cuore degli uomini… cosa si puo’ pescare ancora?

    Un pianeta in affitto e i poveri a pagare per tutti.
    Le guardie e i ladri.
    La porta e’ in mezzo e chissa’ chi e’ dentro e chi e’ fuori dalla prigione della propria anima!

    Per fortuna c’e’ ancora un pugno di farina
    e gente che sa fare anche il pane… (oltre al resto)
    e pure gente che ha delle belle attivita’ e delle belle idee da proporre e cose belle da fare.

    Che Dio benedica la gente che propone cose belle da fare. E le fa.
    La gente che fabbrica chiavi che servono solo ad aprire le porte. (dei cancelli, delle sale di attesa della vita di molti…) Gente che intesse reti invisibili che ci legano tutti ad un’unica storia di salvezza. Che Dio benedica questa sua gente!

  • Jenny, 8 Marzo 2012 @ 19:01 Reply

    Grazie Vera, grazie Paolo!!! Una preghiera x tutti.

  • Costanza, 10 Marzo 2012 @ 15:36 Reply

    mi è capitato più volte di entrare in contato con il mondo del carcere; è difficile parlarne, perché è difficile soprattutto pensarlo, e se non si riesce ad immaginarselo non si riesce neppure a comprendere come dare ‘una seconda occasione’. Mi e vi segnalo tre titoli che possono essere utili a chi cerca di capire qualcosa di più: il podcast su radiotre di ‘Tre soldi’, radiodocumentario dal carcere femminile di Pozzuoli, un film in questi giorni nelle sale, ‘La-bas’, leone del futuro al Festival di Venezia, e un documentario sulle famiglie dei carcerati, ‘Il loro Natale’.

  • michaela, 10 Marzo 2012 @ 23:33 Reply

    “non ha il permesso di soggiorno ma la busta paga con trattenute fiscali”

    MIsteri della burocrazia o misteri delle contraddizioni del governo?

    Se pensiamo che c’è chi ha perduto il lavoro o non lo ha mai avuto e non sa come sbarcare il lunario e sfamare la propria famiglia e c’è chi invece in barba ai tagli ordina nuove auto blu e non riesce a rinunciare al benchè minimo privilegio…….

    Prego il Signore perchè veda e provveda, per i due giovani, per tutti!

  • angelo, 11 Marzo 2012 @ 14:57 Reply

    “Ricordati che devi morire”: è la famosa frase che il monaco dice a Massimo Troisi, nel film “Non ci resta che piangere”.

    L’unica cosa certa della vita è la morte e allora……..!

    • Janus, 13 Marzo 2012 @ 23:56 Reply

      E’ emblematico come il “memento mori” che ha almeno 2000 anni ed attraversa la cultura greco-romana per passare dalla clausura trappista e su su fino a noi, venga ricordato con una citazione cinematografica.

      Debord aveva già visto tutto.

      … in ogni caso, come risponde Troisi … “segnamocelo” …
      … nel frattempo però non scordiamoci di vivere, di goderci questo dono stupendo … e cerchiamo di farne qualcosa di buon nel nome del Signore.

      Janus

      • Federica, 14 Marzo 2012 @ 00:17 Reply

        “segnamocelo”

        grazie Janus, sei riuscito a farmi sorridere!

        🙂

  • alexis, 11 Marzo 2012 @ 17:34 Reply

    “Come in cielo così in terra”

    Davvero penso che a Dio sarebbe piaciuto fare del luogo in cui abitiamo un immenso giardino come quello che è nei cieli!

    Ma noi uomini siamo troppo legati ai beni della terra per far si che questo mai possa accadere.

    Allora non ci resta che aspettare il Giudizio Finale quando Lazzaro sarà accanto al Padre Abramo e il ricco epulone (l’innominato) sarà sprofondato nell’oblio del nulla.

    E non ci sarà più Pakistano, tunisino, italiano, greco………ma saremo tutti fratelli e figli di un Unico Padre.

  • Anna (da Nicodemo), 13 Marzo 2012 @ 13:29 Reply

    Consiglio vivamente questo blog … anche a proposito di perdono e di ricostruzione dell’anima.
    http://www.iltesoro.org/

  • Janus, 14 Marzo 2012 @ 00:53 Reply

    Cari amici vi invito a riflettere molto sul fatto che le parole e le immagini che produciamo sono lo strumento con cui noi stessi costruiamo la realtà che ci circonda.

    @Paolo
    … a 30anni … non si è ragazzi …. si è uomini, fatti e finiti!
    Da un pezzo !

    Superiamo i riflessi e le mille vite e forme del mito del buon selvaggio 🙂

    In termini di comunicazione … questo post farebbe scuola!
    Per come è stato posto il racconto, per le immagini trasmesse e per quanto ne è derivato in commenti !
    Semiotica allo stato puro 🙂

    Vi lascio con una certezza … il carcere per quei signori …. lo abbiamo costruito noi, le loro sbarre, i loro guardiani, le loro pene ed angosce … così come abbiamo costruito noi le immagini che hanno iniziato a popolare i loro sogni ed a fargli desiderare le nostre cose ed il nostro mondo … fino a portarli qua!
    Li abbiamo chiamati, loro sono venuti e noi li abbiamo messi in carcere ….

    Analogamente abbiamo creato l’immagine di piccole comunità in cui qualcuno di questi signori potrà forse riprendere una vita normale fuori dalle sbarre e farci sentire bravi e belli e migliori … alla faccia di tutti quelli che non ce la faranno mai … ne ad arrivare qua …ne ad andarsene da qua!

    Ora sta a capire se ci (noi cattolici intendo) preme di più continuare a farci belli con le nostre favolette … o vogliamo decidere di riprendere la battaglia delle parole e delle immagini in questa benedetta società.

    Salùt
    Janus

  • Federica, 14 Marzo 2012 @ 17:23 Reply

    Grazie ancora Janus!

    da far venire i brividi! 🙂

  • Stefano (Perugia), 15 Marzo 2012 @ 00:04 Reply

    Ho sempre pensato che l’essenza della fede sia credere che per ognuno di noi ci sia sempre la possibilità di un “secondo tempo”. Non importa in quale abisso si sia conficcata la nostra coscienza, Dio ci invita a convertirci sempre e comunque ed incessantemente ci offre una seconda possibilità. Anzi, anche una terza, una quarta… Insomma essere seguaci di Cristo vuol dire credere che la Salvezza sia per tutti.

    Eppure proprio in questi giorni sento tutta la difficoltà nel mantenere questa convinzione. I media hanno riportato la notizia con grande evidenza: in un paesino vicino a Perugia – uno sputo di case nella piana attraversata dal corso del Tevere, chiamato Ramazzano – una famiglia è stata spezzata dalla cieca violenza di rapinatori senza scrupoli. Una mia collega d’ufficio vive proprio in quel paesino a pochi metri di distanza dalla villetta fatta oggetto dell’attacco della banda di malfattori. Gente che viene da fuori – sono convinti gli investigatori – e ciò pare confermato dal recente arresto del basista, un cittadino rumeno. Tutto un paese è sconvolto da quello che è successo: tre rapinatori incappucciati entrano dopo le dieci di sera in una villetta. Mi immagino la scena dai racconti della mia collega che conosce bene la famiglia aggredita: tre uomini incappucciati piombano in casa urlando. Indossano dei passamontagna e minacciano i presenti che ancora sono seduti a tavola per la cena con le armi spianate. Sono su di giri – probabilmente hanno assunto qualche sostanza prima del colpo – ed estremamente brutali e violenti. Nella villetta trovano la padrona di casa con uno dei nipoti, un ragazzino di quattordici anni, insieme al figlio della donna ed alla sua compagna. Il marito della signora è andato, casualmente, nel vicino bar del paese per stare un po’ con gli amici. La collega mi ha parlato dell’incredibile devastazione lasciata in casa dai rapinatori. Sostiene che hanno sparato pure dentro il camino. Sono violenti e non gli bastano i duemila euro in contanti che hanno trovato. Puntano più volte la pistola anche in faccia al ragazzino che è terrorizzato. Uno di loro, mi racconta la collega, ha giocherellato per tutto il tempo con la pistola, come fosse impaziente di sparare qualche colpo. I tre decidono alla fine di portare via la giovane donna, fidanzata del figlio della padrona di casa, probabilmente per abusarne. Sono violenti ed animaleschi. Il giovane protesta, tentando disperatamente di proteggere la sua ragazza. I tre sono furibondi e gli sparano. Lo colpiscono alle gambe. Lui si trascina tra le urla dei presenti: i suoi familiari per il terrore, i malviventi per odio. Cosa sia successo poi, non è chiaro, ma sembra che il poveretto si sia trascinato in camera nel disperato tentativo di scappare e che sia stato lì raggiunto e finito a sangue freddo. I tre si dileguano, rubando una delle macchine parcheggiate davanti alla villetta che verrà ritrovata più tardi in un luogo a poca distanza.

    Tutta Ramazzano è sconvolta. Non ci si spiega quella inaudita violenza che proprio non ha senso. Uccidere così un ragazzo di poco più di trent’anni, già ferito e ridotto all’impotenza, è inumano. La paura e lo sgomento della popolazione è palpabile. Ci si sente impotenti ed in pericolo. La violenza che ti entra in casa è qualcosa di insostenibile. Ti senti quasi profanato nel luogo più sacro, quello del tuo focolare. Quando la sera chiudo la porta dell’appartamento quasi tiro un sospiro di sollievo perché finalmente lascio fuori da casa mia – luogo dell’intimità e mio rifugio – tutti i problemi, i conflitti, le preoccupazioni. Me ne sto beato tra i miei cari: Maria Chiara ed i piccoli Luca e Matteo. Pensare che qualcuno possa spezzare quel mio momento di quiete e fare del male alla mia famiglia risveglia in me gli istinti peggiori.

    Ogni famiglia di Ramazzano vive quel lutto come fosse il suo. Ognuno si sente accomunato dall’insicurezza e teme che quell’irrazionale violenza possa abbattersi anche sulla propria famiglia. In fondo poteva succedere a chiunque e solo il caso ha deciso che quel feroce branco di rapinatori piombasse in un luogo piuttosto che in un altro. Il Vescovo, mi racconta la collega, durante una veglia di preghiera organizzata in paese dopo il fatto invita tutti a non farsi travolgere dall’odio. Nessuno lo ascolta e molti escono dalla chiesa. Le loro orecchie non tollerano quelle parole, inaccettabili. La mia stessa amica quasi è scandalizzata da quella omelia che sembra non riconoscere il dolore e la paura di Ramazzano. È veramente difficile vedere un “secondo tempo”: per quella famiglia sconvolta dal dolore e dal lutto, per tutta Ramazzano che vive nella paura e nell’insicurezza e per quel branco che così vigliaccamente ha ucciso e brutalizzato. Per quest’ultimi sembra non esserci alcun diritto alla conversione, quasi non fossero neppure lontanamente figli di Dio.

    Proprio ieri, uscendo dall’ufficio nel tardo pomeriggio dopo una pesante giornata di lavoro, mi imbatto in un mio collega che non vedo da tempo. Ci salutiamo cordialmente e finiamo, inevitabilmente a parlare dei figli. Lui è sempre fermo ad uno e fa molte resistenze per un eventuale secondo. Io gli racconto del piccolo incidente di Matteo, mio figlio di due anni e due mesi, che si è fatto di recente un taglio in fronte che abbiamo fatto medicare al pronto soccorso e di Luca, tre anni e mezzo, che all’uscita dall’ospedale ha salutato il dottore che ha curato il fratellino con un emblematico: “Arrivederci dottore, ci vediamo presto!”. Per un po’ ridiamo insieme dell’uscita simpatica di mio figlio. Poi lui, improvvisamente, si fa serio e mi dice: “hai sentito della collega che si è uccisa venerdì?”. Faccio un cenno con la testa, sospirando. Lui mi racconta che la conosceva bene, avendo l’ufficio proprio davanti al suo. Era una bella ragazza, sulla quarantina, mi dice, sempre allegra e solare. “Sono ancora sconvolto”, aggiunge sconsolato, “e quando ieri mattina mi hanno dato la notizia della sua morte a momenti mi è venuto un colpo!”. Io, invece, non la conoscevo ma è impossibile non essere toccati dalla tragedia di questa povera ragazza. Mi hanno raccontato che si è buttata nel vuoto, suicidandosi. Forse a causa di un amore finito male. Il mio collega mi dice che solo il giorno prima aveva pranzato insieme a lei ed altri nel vicino bar. “È impossibile pensare che ora lei non ci sia più!”, sospira.

    Penso al suo “secondo tempo”. Rimango sconvolto da ognuno di questi gesti di autodistruzione. Il suicido mi turba perché in quell’atto vedo la morte della Speranza. Ora mi piacerebbe essere un teologo per, magari, trovare su qualche libro polveroso una risposta convincente sul se questa ragazza avrà mai un “secondo tempo”. Ho da sempre creduto che chi si suicida sia perduto definitivamente e questo pensiero mi inqueta profondamente. Possibile che per queste anime disperate non ci sia un “secondo tempo”?

    L’altro giorno passo a prendere Luca alla scuola materna. Come al solito è contento di vedermi e mi grida un “papà!” grande come il mondo. Come al solito mi da un foglio di carta stropicciato: è un suo disegno che regala a quel genitore che lo passa a prendere. Mentre lo aiuto ad indossare la giacca a vento esce dall’aula una ragazzina ricciola e dalla pelle scura. Scopro da Luca che si chiama Karima, sua compagna di classe di origine magrebina. Rimango estasiato da come interagiscono tra di loro. Luca la ferma e gli chiede: “dove vai?”. Lei risponde: “a fare la pipì!”. Lui: “io già l’ho fatta!”. Lei: “Vai via?”. Lui: “Mi è venuto a prendere il mio papà!”. Lei lo abbraccia e lo saluta con un “ciao Luca” a cui il mio ranocchietto risponde con un entusiastico: “ciao, ciao!”. Sorrido anche nel mio cuore. In quella loro interazione riscopro un modo autentico di incontrarsi con l’altro. Karima e Luca non conoscono i pregiudizi dei grandi. Loro si fermano a quello che è veramente importante, la loro amicizia, senza farsi influenzare da diffidenze e paure. Loro sono il mio “secondo tempo”, la mia conversione dal timore della violenza cieca ed irrazionale che tutto condiziona.

    C’è un’espressione francescana, un saluto che è anche un augurio, che mi piace molto. Dice semplicemente “il Signore ti dia Pace!”. In questa frase c’è tutto: una preghiera, un auspicio, forse una certezza. Sento nel mio cuore l’impulso di accomunare quel saluto alla ragazza che si è suicidata pochi giorni fa. Forse, e semplicemente, la mia domanda se ci sia anche per lei un “secondo tempo” trova in quel motto la sua risposta. Noi, colleghi, amici, parenti, non siamo stati in grado di regalare a lei un po’ di pace, perché addirittura incapaci di riconoscere il suo tormento. Eppure quel “che il Signore ti dia Pace!” che tante volte sento proferire mi ricorda che c’è Qualcuno che può dare quello di cui abbiamo più bisogno: la Pace, appunto.

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