Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Il vangelo di oggi si spiazza, è un enigma quello proposto da Gesù. Di solito pensiamo a lui come il pastore che esce a cercare la pecora smarrita. Oggi, invece, il pastore entra nel recinto e fa uscire le pecore ad una ad una, chiamandole per nome. Il termine che usa Giovanni non indica un recinto qualunque, un ovile, ma il recinto sacro che circonda il tempio. Gesù fa uscire le sue pecore, anzi, le caccia a pedate come lascia intendere l’evangelista, le fa fuggire dal recinto della schiavitù interiore. Le caccia fuori dal recinto in cui i mercenari le hanno rinchiuse.
Il recinto di una religiosità che opprime, invece di liberare, che umilia invece di far crescere. Una religiosità piccina che tratta le persone da pecoroni e non da figli.
Il recinto di un mondo che abusa di noi, che ci schiaccia e ci tratta come delle pecore da tosare o da mungere.
Il recinto delle nostra false certezze, dei nostri giri di testa, delle nostre paranoie.
Ci conosce per nome, il Maestro, sa esattamente chi siamo, l’unico che sa davvero chi siamo in profondità. Prima di Pasqua abbiamo udito il grido di Gesù che chiedeva a Lazzaro e a noi di venire fuori, così oggi il Pastore bello, ci chiede di uscire da tutte le ristrettezze umane e religiose in cui abitiamo, per diventare liberi, seguendolo.
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