Mi colpisce una notizia che leggo stamani sui quotidiani online: i giochi d’azzardo, in Italia, si spartiscono una torta che a fine 2011 arriverà a quota 80 miliardi di euro: 16 volte il business annuo di Las Vegas o quanto basterebbe a sei o sette manovre finanziarie. Su questa cifra imponente lo Stato incassa il dieci per cento. E il settore ha 120 mila addetti, di fatto la terza industria italiana dopo Eni e Fiat. Rileggo bene la notizia perché non mi capacito: un giro d’affari di 80 miliardi di euro che, dividendo per 50 milioni di italiani, escludendo cioè poppanti e inabili, fa 1600 euro all’anno, cioè una media di oltre 130 euro al mese a persona. Siamo diventati uno Stato basato sul gioco d’azzardo. Sconcertante.
Ho avuto a che fare con tante persone prese dal brutto giro del gioco: padri di famiglia che finivano la giornata giocando alle macchinette del bar l’intero guadagno della giornata, persone che si indebitavano per poter giocare la schedina. Casi patologici che, vista l’ampia disponibilità di giochi e di scommesse, si stanno diffondendo a macchia d’olio. Mi racconta Matteo dei tanti che bussano alla porta del loro centro anti-usura e porta a modello la casalinga che si è indebitata con gli usurai per ventimila euro giocati al Gratta e vinci. Certo, bisogna imparare a giocare, si dice ipocritamente, e lo Stato, dopo avere incassato 8 bei miliardi di euro, ne investe qualche milione per fare la pubblicità e invitare a giocare con responsabilità!
Ma la cosa che mi inquieta è il messaggio soggiacente a questo modo di vivere: se ho fortuna vinco una paccata di soldi e mi sistemo, la mia vita cambia. Siamo proprio sicuri? Certo, qualche soldo in più a noi oppressi da mutuo servirebbe, ma davvero la soluzione ai nostri problemi è essere seppelliti dai soldi?
Senza fare ulteriormente il grillo parlante mi ricordo della Scrittura che prega Dio in questo modo: non ti chiedo né la ricchezza né la povertà. Nella ricchezza potrei inorgoglirmi dicendo che non esisti; nella povertà potrei disperarmi.
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