Conobbi Christophe, giovane monaco, a Tamiè, nella seconda metà degli anni ’80. Proveniva dal monastero trappista di Les Dombes. In seguito seppi che raggiunse alcuni confratelli in Algeria, a Notre Dame de L’Atlas, un piccolo monastero benedettino in mezzo alle montagne. A quei tempi non mi colpì particolarmente, era uno dei tanti monaci che cantavano splendidamente nel monastero che amavo frequentare per la liturgia orante e intensa. Seppi di lui molti anni dopo, nel 1996, quando la GIA islamica rapì i sette monaci inermi. Furono 1oomila i morti in quegli anni e, fra i molti, tutti gli stranieri che non avevano abbandonato l’Algeria sotto la minaccia della violenza. Loro rimasero. Nessun eroismo, solo un’obbedienza alla storia e al loro carisma, solo il buon senso di stare accanto alla gente che li amava, tutti musulmani, e che salivano da uno dei frati, medico, che rompeva la clausura per curare la gente del villaggio. “Non andate – disse una madre algerina – noi siamo gli uccelli e voi i rami”. Durante i 60 giorni di rapimento il Cardinal Lustiger volle in tutte le chiese di Francia 7 lumi accesi, giorno e notte. Li spense in abiti liturgici solenni, a Notre Dame di Parigi, davanti a una folla di giornalisti convocati che non osarono porre domande. La laicissima Francia pianse i suoi figli con rispetto inatteso, come si venerano i figli migliori. I diari di Christophe e il suo ultimo, struggente addio, prima di essere rapito, fece il giro del mondo. Per un attimo al vecchia Europa si accorse che ci sono uomini e donne che amano nel silenzio. E che muoiono. Gran premio della Giuria del Festival di Cannes, il film “Des hommes et des Diuex”, tradotto come “Gli uomini di Dio”, giunge oggi nelle sale italiane. E commuove, interroga, inquieta. Nessuna denuncia politica, nessun indugio spettacolare sulla violenza. Solo la vita di sette uomini che seguirono il loro Dio e obbedirono alla gente, non alla minaccia della armi. Un piccolo grande film che scuoterà la nostra coscienza intorpidita, facendoci immaginare una vita altra.
Ecco il loro ricordo
Frère Christian de Chergé, priore della comunità, 59 anni, monaco dal 1969, in Algeria dal 1971. La personalità forte, umanamente e spiritualmente, del gruppo. Figlio di generale, ha conosciuto l’Algeria durante tre anni della sua infanzia e ventisette mesi di servizio militare in piena guerra d’indipendenza. Dopo gli studi al seminario dei carmelitani a Parigi, diventa cappellano del Sacré Coeur di Montmartre a Parigi. Ma entra ben presto al monastero di Aiguebelle per raggiungere Tibhirine nel 1971. È lui che fa passare l’abbazia allo statuto di priorato per orientare il monastero verso una presenza di “oranti in mezzo ad altri oranti”. Aveva una conoscenza profonda dell’islam e una straordinaria capacità di esprimere la vita e la ricerca della comunità.
Frère Luc Dochier, 82 anni, monaco dal 1941, in Algeria dal 1947. Quello che tutti chiamavano “il dottore” era, per usare una sua espressione “un vecchio consumato ma non disilluso”. Nato nel Drome, esercita la medicina durante la guerra e arriva perfino a prendere il posto di un padre di famiglia numerosa in partenza per un campo di prigionia in Germania. Per cinquant’anni a Tibhirine ha curato tutti, gratuitamente, senza distinzioni. Nel luglio 1959 era già stato rapito dai membri del FLN (Fronte di liberazione nazionale). Le crisi d’asma non avevano intaccato il suo humour salace. Per il suo funerale aveva scelto una canzone di Edith Piaf: Non, je ne regrette rien.
Frère Christophe Lebreton, 45 anni, monaco dal 1974, in Algeria dal 1987. Personalità calda ed esplosiva. Settimo di dodici figli, questo sessantottino ha prestato servizio civile a titolo di cooperazione in Algeria. È il primo contatto con il monastero di Tibhirine. A 24 anni entra al monastero di Tamié. Ma è innamorato della terra algerina. Verrà ordinato prete nel 1990 e diventerà maestro dei novizi della comunità. Il suo gusto per i rapporti con i più umili va di pari passo con una caparbia volontà di spingersi sempre più lontano nella riflessione di fede e nel dono di sé.
Frère Bruno Lemarchand, 66 anni, monaco dal 1981, in Algeria e Marocco dal 1990. Come Michel e Célestin, proviene dall’abbazia di Bellefontaine. Ma prima era stato per quattordici anni direttore del collegio Saint-Charles di Thonars (Deux-Sèvres). Figlio di militare, nell’infanzia ha conosciuto l’Indocina e l’Algeria. In realtà, è solo per caso che si trova a Tibhirine il 26 marzo 1996. Dal 1990 è 1’animatore della fraternità che,la comunità ha aperto a Fez in Marocco. È venuto per partecipare alle votazioni per il rinnovo della carica di priore. Lo dipingono come un uomo posato e riflessivo.
Frère Michel Fleury, 52 anni, monaco dal 1981, in Algeria dal 1985. Un uomo semplice, per non dire schivo, ma impregnato di povertà. Nato da una famiglia contadina della Loire-Atlantique, era entrato nella congregazione del Prado a 27 anni e aveva lavorato come fresatore a Lione e a Marsiglia, prima di dirigere i suoi passi all’abbazia di Bellefontaine. Lì sente la chiamata dell’Algeria. A Tibhirine è il cuoco della comunità e l’uomo dei lavori domestici. È sua la cocolla (abito monastico che segna l’assunzione dell’impegno definitivo) che viene ritrovata sulla strada di Médéa dopo il rapimento.
Frère Célestin Ringeard, 62 anni, monaco dal 1983, in Algeria dal 1987. Due esperienze caratterizzano lo sfondo della sua vocazione monastica. Innanzitutto la guerra d’Algeria nel corso della quale, infermiere, cura un partigiano ferito che l’esercito francese avrebbe voluto finire. Poi un lavoro di educatore di strada a Nantes, in mezzo ad alcolizzati, prostitute e omosessuali. Prete diocesano, sceglie tardi la Trappa. Estremamente sensibile, dovrà convivere con sei by-pass coronarici dopo la prima visita del GIA al monastero nel Natale 1993.
Frère Paul Favre-Miville, 57 anni, monaco dal 1984, in Algeria dal 1989. Un savoiardo fino al midollo, che ha trovato solo a 45 anni il suo cammino verso le vette. Prima è stato idraulico e ha fatto il militare in Algeria come ufficiale paracadutista. A Tibhirine è l’uomo dell’acqua, quello che mette in funzione un impianto di irrigazione per gli orti. Nel marzo 1996 era appena rientrato da una sosta in famiglia, portando una scorta di vanghe e dei giovani faggi da piantare. Perché Tibhirine significa “giardino”…
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