Prima lettura: Es 12,1-8.11-14 Seconda lettura: 1Cor 11,23-26 Vangelo: Gv 13,1-15
La prima volta
Inizia il Triduo Pasquale, i tre giorni più intensi dell’anno, giorni di emozioni forti, di fede messa a nudo, di stupore e dolore, rabbia e conversione, i tre giorni in cui Dio ha salvato il mondo.
Stamani tutti i preti del mondo si sono radunati attorno al proprio Vescovo, per consacrare gli olii di salvezza, per abbracciarsi prima di partire a servizio delle proprie comunità.
Ora, stasera, qui, ricordiamo la prima volta.
La prima volta in cui Dio si è fatto cibo e bevanda.
La prima messa
Gesù sa che tutto è perduto.
La lontananza con i suoi è abissale, Luca dice che il litigio su chi sia il più grande tra i discepoli avviene durante l’ultima Cena (che squallore!), Gesù avverte che nessuno (forse solo Giuda) ha colto la gravità della situazione.
In quel contesto solenne, liturgico (si celebra la Pesah, la Pasqua degli ebrei), Gesù pone un gesto intenso: dona del pane, dona del vino, quella è la sua presenza – dice – chiede ai suoi di ripetere quel memoriale perché lui sia presente.
Mangiano, i discepoli.
Bevono, senza capire troppo il misterioso linguaggio del Maestro che oggi sembra più stanco del solito.
Dio inizia qui la sua Passione.
Il sangue che tra poco copioso scenderà dalle ferite sulla cute del capo, già si mischia a quel vino segno di eterna alleanza, di imperitura amicizia.
“Fate questo in memoria di me”, chiede Gesù.
E noi obbediamo, amato Rabbì.
Stasera e domenica e ogni domenica, ripetiamo quel gesto.
Lo rifacciamo per averti presente, per sentirti accanto, per cantare la tua gloria, per misurare il tuo immenso amore.
Anche se le nostre messe sono fiacche, le nostre parole stanche, i nostri canti ripetitivi, le nostre celebrazioni distratte e abitudinarie, ripetiamo quel gesto.
In obbedienza.
Anniversari
La prima messa, la prima volta: la celebrazione che stiamo facendo è piena di questo stupore, lo stupore di un Dio che si fa pane e vino.
E di un altro stupore: quello di un Dio che si consegna alle fragili mani degli uomini per rendersi presente.
In questa notte ogni sacerdote si ritrova, si riconosce, si identifica: oggi ricorre l’anniversario dell’invenzione del sacerdozio ministeriale.
Nell’ordine: “Fate questo in memoria di me”, Gesù pone le fondamenta per la nascita di chi, all’interno della comunità, dovrà celebrare la Cena del Signore.
Preghiamo per i nostri preti, oggi.
Preghiamo per i preti concreti, quelli pieni di limiti che ci troviamo accanto, quelli incoerenti e buffi, quelli che Dio ha amato da sempre.
Preghiamo per loro, come Gesù ha pregato per i suoi fragili discepoli, amandoli e affidando loro la Parola e il Pane, come un tesoro contenuto in fragili vasi di creta.
Venerdì Santo
Prima lettura: Is 52,13-53,12 Seconda lettura: Eb 4,14-16;5,7-9 Vangelo: Gv 18,1-19,42
Silenzio
Silenzio, Dio muore.
Silenzio, Dio è appeso ad una croce, ha dato tutto, ha donato tutto.
Silenzio: le nostre chiese, spoglie, senza fiori, né tovaglie, né candele, vedono sfilare persone che, nella penombra, si accostano ad una croce.
Silenzio: tacciono le campane, la Chiesa intera si ferma alle soglie del Mistero. E tace.
Nessuna Messa oggi viene celebrata.
Dio celebra la sua Messa, appeso ad una croce.
La morte di Gesù
Gesù viene a svelare il vero volto di Dio, il volto del Padre.
Questo evento è l’ultimo tassello di un’entusiasmante e originale storia d’amore fra Dio e il suo popolo, storia vissuta in prima persona da Israele, tra alti e bassi. Un Dio che si racconta, che entra in relazione, che ama, che sostituisce quell’immagine innata ed oscura della divinità che portiamo nell’inconscio.
Questa relazione vive momenti esaltanti (da Abramo, attraverso Mosè e Davide, fino ai Profeti), e momenti deprimenti, caratterizzati dalla fatica dell’uomo a restare fedele all’immagine che Dio svela di sé attraverso i Profeti.
Stanco, Dio diventa uomo.
Gesù è il vero volto di Dio, il raccontatore del Padre.
Lo racconta con la sua vita, la sua serena parola, le sue vibranti provocazioni. Gesù sceglie (ricordate?) all’inizio della sua missione, nel deserto di Giuda, quale Messia diventare.
Il demonio, con arguto buon senso, lo invita ad usare la forza, lo stupore, il miracolo, l’alleanza col potere, per essere efficace (cfr. Mt 4,1 ss). Ha ragione, in fondo: se Gesù avesse galleggiato nel vuoto sorretto da angeli non sarebbe forse stato riconosciuto come Messia?
Invece no, Gesù sceglie di essere un Messia di basso profilo, un Dio sottotono, mediocre.
Non userà la forza, né compirà prodigi eclatanti, non userà le armi della seduzione, rifiuterà i trucchi del politico.
Perché Dio vuole essere amato per ciò che è, perché “è”, e non per ciò che dà.
Tutto di Dio, Gesù difende il Padre contro la visione gretta e approssimativa che ne abbiamo. Ma non bastano i miracoli (ambigui), né la tenerezza (fragile), né la predicazione (controversa) degli anni di vita pubblica. Gesù arriva alla fine dei suoi intensi tre anni con un pugno di mosche in mano: l’umanità non ha capito.
I suoi discepoli, preziosi e amati, sono fermi alla contraddizione del potere e della gloria e inchiodati al proprio (evidente) limite; i capi religiosi ne avvertono la forza destabilizzante; la folla segue il vento della moda.
Gesù non ha alcuna possibilità di farcela, la sua scommessa è persa.
Non è servito, non è bastato, non è sufficiente tutto l’amore che ha donato.
Forse aveva ragione l’avversario, là nel deserto: troppo ingenuo questo modo di operare. Davvero Dio pensava di trattare con gli uomini alla pari? Di aprire il loro cuore col sorriso? Di presentarsi vulnerabile?
La scelta da fare, ormai, è una sola: andarsene, rinunciare, gettare la spugna.
Occuparsi – chissà – di un altro mondo. Oppure…
Oppure
Oppure lasciarsi travolgere, sparire, morire. Lasciare che le tenebre vincano, lasciare che le cose prendano la loro piega, osare. Osare fino a morire appeso ad una croce, fino all’eccesso.
Altro è dire: “Dio vi ama!”, altro morire.
Altro dire: “Il Padre vi perdona!”, altro pendere, nudo, da un palo.
Una cosa parlare, un’altra morire. Urlando.
Una cosa predicare, un’altra vivere fino in fondo ciò che si è predicato.
Capiranno, gli uomini? O Dio sarà uno dei tanti sconfitti della storia, dimenticati?
La posta in gioco è immensa: l’esistenza stessa di Dio.
Quanti crocefissi sono morti nella storia antica?
Cinquecentomila?
Un milione?
Di quanti di loro ricordiamo il nome e la vita?
Di nessuno.
Il rischio che Dio corre in quell’ultimo gesto è quello di scomparire per sempre. L’uomo avrebbe continuato ad immaginarsi Dio con un volto identico ai propri desideri e alle proprie paure.
Gesù accetta, rischia, si dona. Forse sarà tutto inutile, come insinua l’avversario nell’orto degli ulivi.
Forse.
L’agonia di Gesù, nell’orto degli ulivi, l’agonia che lo fa sudare sangue, è tutta lì, in quella scelta. Non nel dolore che Gesù deve affrontare, non nel senso di abbandono da parte dei suoi, no.
Francamente: conosco persone che hanno sofferto molto più e molto più a lungo di Gesù.
Io credo che il dolore, inaudito, che Gesù prova, nasca dal dubbio dell’inutilità della sua scelta definitiva.
L’avversario, che torna ora che è giunta l’ora, cerca di scoraggiarlo: “è tutto inutile”.
Inutile: non vedi che ti stanno venendo a prendere per arrestarti? Inutile: i tuoi stanno dormendo, non hanno capito la gravità della situazione. Inutile, l’uomo non cambierà mai.
Gesù accetta, corre il rischio, si dona. Morirà.
Lì, appeso alla croce, Dio è evidente, inequivocabile, non vi è alcuna possibilità di ambiguità.
Il cuore della passione di Cristo è l’amore, non la violenza, con buona pace di Mel Gibson e del suo considerevole tentativo di rappresentare la Passione.
Gesù muore affidando al Padre il proprio cuore, e donando a noi lo Spirito.
Dio è evidente: osteso, mostrato, nudo.
Dio è così, amici: arreso.
A noi, ora, la prossima mossa.
Veglia Pasquale
Letture a scelta – Vangelo: Lc 24,1-12
Correte!
Correte, presto, correte!
Le campane suonino a distesa, accendete il fuoco fuori dalle Chiese, fate entrare quel grande cero che rompe le tenebre, ditelo a tutti vi prego: il Nazareno che cercavate, morto, è scomparso, non è più qui, è risorto!
Risorto!
Troppo spesso il Gesù in cui crediamo è morto, e noi pensiamo di fargli un piacere portandogli ancora degli unguenti per imbalsamarlo!
Gesù è morto quando lo teniamo fuori dalla nostra vita, morto se resta chiuso nei tabernacoli delle chiese senza uscire in strada con noi, morto se la sua Parola non spacca il mare di ghiaccio che soffoca il nostro cuore.
Gesù è morto e sepolto quando la nostra diventa una religione senza fede, un quieto appartenere alla cultura cristiana senza che il fuoco della Sua presenza contagi la nostra e l’altrui vita; morto se la fede non cambia la nostra economia, la nostra politica; morto quando ci arrocchiamo nelle nostre posizioni di “cattolici” scordando il nostro essere uomini.
Morto, amici, morto.
No, Gesù non è morto. È vivo. Non rianimato, non vivo nel nostro pensiero, no, veramente risuscitato e presente, che ci crediamo o no, che ce ne accorgiamo o no.
Da questa consapevolezza nasce la gioia cristiana.
La conversione alle gioia
La conversione al Risorto è difficile, difficilissima.
Occorre allontanarsi dal proprio dolore.
Condividere la gioia cristiana significa superare il dolore che ci rende tristi.
Non c’è che un modo per superare il dolore: non amarlo, non affezionarvisi.
La gioia cristiana è una tristezza superata.
Ma resistenze, dubbi, mancanza di fede pesano sul nostro cuore.
Un’esperienza dolorosa nell’infanzia, una serie di eventi che ci hanno deluso possono davvero impedirci di entrare nella gioia cristiana, che non è un’emozione, ma una scelta consapevole.
Le donne, tornate dagli apostoli, non sono credute, e le loro parole “parvero loro come un vaneggiamento”!
Siamo in buona compagnia, allora, se anche gli apostoli hanno dovuto convertirsi alla gioia!
Vedremo, nelle prossime domeniche, la fatica immensa fatta dai dodici per staccarsi definitivamente dal loro dolore e dalla tragica esperienza della croce e del loro fallimento… E pensare che, per loro, Gesù si farà vedere e li incoraggerà continuamente! Se hanno tribolato loro, così avvantaggiati…
Animo, cercatori di Dio, la più difficile conversione (dopo quella dal Dio che abbiamo nella testa al Dio di Gesù), è proprio quella da una visione crocefissa della fede ad una risorta!
Gli apostoli dubitano; solo Pietro va a verificare: guarda, stupito, e torna a casa meravigliato.
Il verbo usato indica insieme stupore e domanda. È già qualcosa, ma non è ancora fede: non bastano un sepolcro vuoto e le bende per suscitare la fede. Occorre un’esperienza personale del Risorto. E Pietro ne sa qualcosa…
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