Ponti, non muri. Con questa forte affermazione, Papa Giovanni Paolo esortò Israele a lasciar perdere l’idea di dividere il territorio palestinese da quello israeliano con un muro alto sei metri, in cemento. L’appello non fu ascoltato, anche per la comprensibile paura degli ebrei dopo l’impressionante catena di suicidi kamikaze nelle vie della capitale nella seconda Intifada, esasperata e folle reazione ad una situazione irrisolta. Il conflitto ha radici profonde, lo sappiamo bene, e l’ultima cosa che il paese ha bisogno è l’estremismo e la semplificazione delle idee (consuetudine comune dalle nostre parti). Per capire occorre conoscere le ragioni, dire la verità, e offrire delle solizioni.
Ponti, non muri. Lo sa bene Abuna Raed, parroco in Samaria, che racconta di come, negli anni, su 72 donne partorienti fermate ai Check Point vicino al suo villaggio, 23 di esse hanno perso il bambino, o la propria vita, in attesa di passare. E la sua rabbia (lecita) è diventata operosa: ha costruito in parrocchia una sala parto e da allora nessuna madre ha pianto un bambino morto e nessun bambino è rimato orfano.
Ponti, non muri. Dice suor Donatella del Baby Caritas Hospital di Betlemme, che il muro lo vede a dieci metri dalla sua porta, e che blocca i bambini che, dal loro ospedale pediatrico, devono raggiungere il più vicino ospedale chirurgico a otto chilometri, una distanza infinita per chi ha una peritoninte e non può aspettare otto ore un permesso per andare di là. E allora hanno deciso, le suore, di costruire un’ala chirurgica, e il venerdì vanno al Check point a recitare il rosario, sotto lo sguardo imbarazzato dei soldati, aspettando che il muro crolli come le mure di Gerico.
Ponti, non muri. Dice Rami, Israeliano, che fa parte del Parent’s Circle, un’associazione che raduna 500 famigliari di entrambe le parti che hanno perso una persona nel conflitto e che battono a tappeto le scuole di entrambi i contendenti, chiamandosi “fratelli” e spiegando che il dolore non ha patria.
Ponti, non muri. Dice un altro ragazzo palestinese, nato in un campo di profughi, che ha fatto la prima Intifada lanciando pietre, che ha passato tre anni in carcere, che non ha passaporto, che ha visto il padre morire colpito dalle schegge di un missile israeliano destinato a dei terroristi, che ci dice di essersi convertito alla pace dopo avere conosciuto gli israeliani, averli guardati negli occhi, e di avere capito la loro paura e la loro rabbia quando, per la prima volta, ha letto un libro sull’olocausto.
Ponti, non muri. Di questo ha bisogno la Terra Santa, ogni terra, ogni uomo.
Ponti, non muri., questo è il messaggio che mi porto a casa, in questo mio sesto viaggio in Israele. Messaggio forte e chiaro che mi hanno lasciato i tanti, ebrei, arabi musulmani, arabi cristiani, vere pietre vive di una Chiesa sanguinante e oppressa. E che sarebbe l’ora di conoscere, accanto alle pietre dei monumenti che segnalano la presenza di un Dio che pose piede su questa polvere. E che ogni pellegrino dovrebbe cercare, per portare un messaggio di speranza per quella terra abbandonata dagli uomini.
Ma non da Dio.
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