Da Cascine Gobba a Cadorna, mezz’ora di viaggio, non di più. L’ora è favorevole per soffermarmi ed osservare lungamente il volto di chi sale. Brandelli di umanità che prendono la metro, sintesi più efficace di una ricerca di sociologia. Alla prima fermata, al solito, sale sulla carrozza uno slavo, immagino, che simula una gamba malata e si trascina con una tale goffaggine da rendermelo simpatico. Quando arriva davanti a me gli lascio cinquanta centesimi e un sorriso, e gli dico “Questi sono per migliorare la tecnica”. Non credo che capisca e mi ringrazia. Sono ancora divertito dalla scena che il mio vicino, un pingue signore stempiato sulla sessantina, attacca bottone. Raro, sulla metro: di solito ci si infila sui mezzi con aria sospetta e attenti a non farsi fregare il portafoglio, magari immersi nella lettura di un freepress o annegati nella musica dell’ipod. “Questi delinquenti! Non fanno niente tutto il giorno e ancora rompono le balle!”. Cerco di giustificare il mio gesto mettendola su ridere, per sdrammatizzare. Ma lui insiste, non si ferma più. È un pugliese, è arrivato a Milano alla fine degli anni ’50, con l’inevitabile valigia di cartone legata con lo spago. Mi parla del suo lavoro duro: autista di camion a trasportare la sabbia per la prima cintura, quella verso Cascine Gobba, per capirci: centinaia di palazzi venuti su per un ventennio. Mi parla della fatica, della nostalgia di casa, del razzismo verso i terroni, di una volta che venne portato in questura e dovette sudare sette camicie per spiegare che lui un lavoro e una casa ce l’aveva e non dovevano rimetterlo su un treno. Parla con fervore, si vede che ha faticato. E poi la casa popolare, avuta per la spinta di un conoscente, la moglie, i figli, la pensione. Ho ascoltato senza interrompere, ora cerco, con leggerezza, di fornire una chiave interpretativa: “una vita dura la sua, come credo quella di quel tale di prima”. Mi guarda, fra lo stupito e l’offeso. Si accalora. No, è diverso, molto! Loro erano qui per fame e avevano voglia di lavorare, questi, invece, sono qui per non far niente e rubano! Forse è vero, penso, ma non ho voglia di obiettare: è una guerra fra poveri, i poveri di ieri e i poveri di oggi. Vorrei parlare di Rosarno e dello squallore a cui abbiamo assistito, di gente povera sfruttata da gente povera, di come l’uomo non cambierà mai. No, non faccio politica, mi accodo all’invito pressante rivolto da papa Benedetto ad andare oltre, a ritrovare l’uomo, ogni uomo, dietro ogni volto. È arrivata la sua fermata, mi saluta con un cenno e scende.
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