Tutto congiura contro il suo desiderio di diventare prete: la sua famiglia povera, suo padre, la sua mediocre capacità di studio, Napoleone che lo vuole soldato (diserterà), una Chiesa francese che può permettersi il lusso di selezionare fra i tanti candidati al sacerdozio. Eppure Giovanni Maria Vianney trova nel suo padre spirituale un vero amico che lo aiuta in ogni modo a realizzare il suo sogno. Così, diventato prete, viene prima inviato come curato del suo padre spirituale e, alla morte di lui, destinato ad Ars, piccolo centro rurale di Bourg en Bresse. Siamo nel 1817. Qui il piccolo parroco, timido e impacciato, consapevole della propria inadeguatezza, considerato “strano” dai suoi confratelli, inizia una vita dedicata alla preghiera e alla confessione. Vive con disagio il ministero: fa violenza a se stesso per stare con le persone, per due volte fugge per entrare in monastero, salvo poi ricredersi e tornare al suo posto. A vedere il suo volto, a leggere le sue riflessioni, distanti da noi come sensibilità, proviamo un senso di stupore e di imbarazzo. Il curato d’Ars che si nutre di patate, il santo curato che sta sedici ore in confessionale, le ferrovie che organizzano dei treni speciali da Parigi ad Ars per portare i penitenti, il curato che fa portare le reliquie di santa Filomena per giustificare i miracoli di guarigione che egli opera, attribuendoli alla santa…
Nominato patrono dei parroci, papa Benedetto lo ha voluto come icona dell’anno sacerdotale.
Scrivo questo post dopo qualche settimana di dibattito sul blog, in cui emerge, in alcuni voi, qualche sofferenza di troppo. Tutti noi, credo, abbiamo incontrato dei santi preti e dei preti incoerenti. Io per primo li ho incontrati, e io per primo lo sono stato, perché in ognuno, prete o meno, c’è la santità e l’incoerenza. Non ho risposte facili: io stesso ho espresso il desiderio di una profonda riforma all’interno della Chiesa, ma non a partire dai preti, ma da tutti noi. Il ruolo del prete è in profonda crisi, fra ciò che gli si chiede (funzionario e apostolo, equilibrato e dinamico, celibe e attento alla famiglia…) e la misura del suo limite, in un mondo troppo complesso per essere affrontato con i soliti schemi, il rischio è di aspettarsi troppo da lui o che lui si aspetti troppo da noi.
Cosa ci può dire il Curato d’Ars?
Ci propone il ritorno ad un rapporto di Chiesa fatto di ascolto e di consapevolezza del proprio limite. da parte dei preti e da parte dei fedeli. Quella Chiesa sognata da Cristo e riproposta dal Concilio è ancora molto da costruire: solo la santità può aiutarci a costruire una Chiesa in cui i preti facciano i preti, spezzando la Parola e il pane e i laici i laici, portando il vangelo nel mondo, in prima linea, tutti fratelli, senza prevaricazioni, nella consapevolezza del proprio carisma e del proprio ministero.
Io, come un hobbit, vivo nella terra di mezzo: prete senza esercitare un ministero (eppure più prete che mai), vivo il vangelo nel mondo, nella semplicità di ciò che riesco ad essere e a fare (con qualche fatica dovuta dal non avere l’abitudine alla concretezza quotidiana).
Preghiamo per i nostri preti, mentre ne vediamo i limiti. Preghiamo per tutta la Chiesa, mentre ne sogniamo la conversione.
In questo giorno vi segnalo un libro simpatico e profondo: “Pretacci”, scritto da Candido Cannavò, quella della Gazzetta dello Sport, per intendersi, che alle doti di giornalista aggiunge un’inattesa profondità spirituale. A me ha dato tanto.
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