Ho l’impressione che proprio sul tema del “lavoro” si giochi una titanica battaglia tra il Bene (l’uomo, la sua dignità, la solidarietà, la sua compartecipazione allacreazione) e il Male (“mammona”, il profitto appunto, il calpestare l’altro…) E il rischio è che le arti seduttive del male, d’accordo con la nostra “libertà” di scegliere da che parte giocare, possano far perdurare questa battaglia all’infinito… Ci vuole un grande colpo d’ali da grande “sognatore”, come è Dio, che nonostante noi, scommette su di noi, per evangelizzare questo mondo del lavoro diventato anti-umano. Ho però bisogno, come i tanti lavoratori che vivono in condizioni di assoluta fatica interiore e di disagio, di ribadire alcuni principi che emergono dalla meditazione della Scrittura. La Bibbia, poco conosciuta, ha una prospettiva molto complessa del mondo del lavoro. Cerco di sintetizzarne il percorso: anzitutto la Parola sottolinea il valore del lavoro. Dio stesso lavora per creare il mondo e alla fine si riposa. L’opera della Creazione è affidata all’uomo, il giardiniere dell’Eden, che è chiamato a continuare la Creazione usandone con parsimonia e rispetto le risorse; l’uomo è il completatore della Creazione, l’artista che compie l’opera di Dio. Il lavoro, però, realizza l’uomo solo se vi è una finalità, che non è l’accumulo del denaro, ma la dignità del mantenere sé e la propria famiglia. Lo shabbat ricorda la differenza fra un lavoro schiavizzato (come avveniva in Egitto) da uno legato al proprio impegno. La Bibbia è severa verso l’ozio, esaltato dalla cultura romana, considerandolo una perdita di tempo. Ma la Scrittura non sottovaluta la pena del lavoro che, come ogni realtà umana, è soggetta al peccato. Il lavoro può diventare strumento di oppressione o di alienazione, entrare nella perversa logica del peccato che uccide la dignità. Il lavoro resta comunque realtà penultima, che non va enfatizzata e anche se uno fatica tutta la vita il suo risultato è minato dalla morte, come ricorda causticamente Qoelet. Un altro aspetto presente nella Scrittura è il concetto di redenzione del lavoro. Sono impressionanti le numerose norme di tutela del lavoratore presenti nella Bibbia: Dio prende le difese del salariato e dell’oppresso. Lo shabbat ricorda il valore del riposo e la relatività di ogni fatica e impresa umana. Infine dobbiamo ricordarci di Cristo e il lavoro: Gesù è conosciuto come un lavoratore, usa il mondo del lavoro come continuo riferimento per la sua predicazione e le sue parabole e, dopo di lui, tutti i cristiani hanno sentito molto vicina questa sua presenza, da san Paolo al monachesimo cenobitico che pone il lavoro e la preghiera come pilastri della nuova civiltà cristiana dei monasteri. A partire da questi semplici dati biblici cerco di tirare alcune conseguenze ben declinabili nella nostra realtà. Anzitutto occorre ribadire che il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro. Occorre ricordarlo ad un capitalismo e ad un liberismo impazziti e autoreferenziali che si propongono come unico modo efficace di concepire l’organizzazione dell’economia. Al centro dell’economia non vi è il profitto ma il bene comune, anche la logica di mercato va assoggettata al bene supremo che è l’uomo: “Non esistono leggi economiche insormontabili” come ricorda il catechismo degli adulti della CEI, e “Occorre adattare tutto il processo produttivo alla persona”, come dice il Concilio (GS 67). A chi propone il modello liberista come necessario i cristiani ricordano che è l’uomo che fa le leggi e le disfa e che se un progetto è condiviso su larga scala è in grado di rivoluzionare un modo di pensare che sembra ineluttabile. Perché, ad esempio, noi cristiani non boicottiamo la spesa nei giorni festivi per dare la possibilità a quei fratelli di vivere il giorno del Signore? Siamo degli acquirenti e anche la più grande multinazionale teme il giudizio del consumatore. Perché non riappropriarci del nostro ruolo semplicemente creando una condivisa opinione che faccia pressione sulle logiche di mercato? La falsa illusione dell’arricchimento facile che ha portato al lastrico numerose famiglie che si sono lanciate in borsa (dai Bond argentini alla Parmalat) dovrebbe averci insegnato ad immaginare un’economia che non resti legata alla logica del profitto ma sia lungimirante per il futuro. Il libero mercato è una buona cosa perché esprime la libertà dell’essere umano, ma è sempre soggetto alle leggi di equità e di giustizia. Forse occorre operare un ripensamento al modello italiano del Welfare che ha permesso all’Italia del dopoguerra di diventare grande, senza ingenuità ed eccessi che hanno minato profondamente la possibilità di immaginare una società veramente solidale. Il mondo del lavoro è uno dei luoghi in cui ci giochiamo il futuro e la visione del mondo.
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