Sono sotto i portici di via Po, a Torino, ho almeno un’ora di tempo prima di vedere della gente per lavoro. Non faccio in tempo ad andare a casa e soccombo all’idea di farmi un panino. So già che me ne pentirò e che mi verrà l’acidità di stomaco. Pazienza, farò di necessità virtù.Vicino a Palazzo Nuovo ci sono frotte di studenti e decine di piccoli locali ultraeconomici. Mi fermo davanti ad uno di questi, il bancone è mediamente affollato da qualche decina di universitari: preparano tranci di pizza e panini. Ordino un kebab e una birra e mi metto in attesa. Menu a cinque euro, di questi tempi non c’è molto da ridere e sopporterò bene l’acidità di stomaco. Ho modo di osservare i tre ragazzi dietro al bancone che lavorano freneticamente. Hanno modi sufficientemente gentili, anche se il loro tono di voce è palesemente stanco. Il “mio” kebab me lo prepara un ragazzo più napoletano che nord-africano. I tre possono avere al massimo vent’anni, vestiti con una maglietta bianca dello “staff”, qualche piercing, capelli cortissimi i due ragazzi, medio lunghi e scuri la ragazza. Lavorano freneticamente, cercano di non scottarsi mentre scaldano le pizze, si parlano con ordini secchi, evidentemente abituati a stare insieme. Mentre osservo penso ad una splendida canzone di Guccini, Autogrill, in cui lui osserva la ragazza dietro al banco e immagina la sua vita, i suoi pensieri, i suoi sogni. Faccio anch’io lo stesso. Chissà come stanno? Cosa vivono? Cosa fanno? Quanto guadagneranno? Ottocento, novecento euro al mese per stare dietro un bancone col padrone alla cassa che li controlla. Abiteranno necessariamente con i propri genitori, magari avranno un amore, forse qualche sogno. E i ragazzi che servono, tutti universitari, sono lì, un passo avanti a loro. Almeno loro una laurea se la prenderanno. Magari finiranno lo stesso dietro ad un bancone, ma con uno straccio di laurea in tasca. Mi estraneo per qualche istante, mentre aspetto comincio a pregare per questi tre ragazzotti. Vorrei abbracciarli, dar loro speranza, incoraggiarli. E invece già annaspano, hanno già lo sguardo segnato dalla vita, già devono correre per non perdere un treno che non sanno dove li porterà. Mi fanno tenerezza, compassione, sento una profonda emozione salirmi dal cuore. Sorrido. Forse anche Gesù provava gli stessi sentimenti con i poveri del suo tempo. Su una panchina di piazza Castello tiro fuori l’ultimo libro del cardinal Martini. Lo sto centellinando, immaginando che sarà il suo ultimo libro. Padre Sporschill, in una serie di colloqui notturni a Gerusalemme, gli pone una serie di domande. Mi colpisce una risposta alla domanda su cosa chiederebbe a Dio: «Gli chiederei: perché permetti che esista un divario fra molti giovani, soprattutto quelli cui non manca nulla, e la Chiesa, con tutti i tesori celesti che può portare agli uomini? Perché le due parti non possono essere più vicine?». Penso ai miei tre giovani del kebab. Chissà se qualcuno potrà mai parlar loro di Dio, dirgli, almeno una volta, con passione, con amore, con autenticità, che la loro vita ha valore, che qualunque cosa faranno nella loro vita, se sapranno di essere amati e di potere amare, avranno realizzato il loro destino? Certo, le nostre parrocchie qualcosa fanno, qualche piccolo segno di speranza c’è. Ma io sono polemico: quando qualcuno mi dice che nelle Giornate Mondiali della Gioventù partecipano tanti giovani faccio loro notare che a un concerto di Vasco Rossi ne arrivano ottantamila alla volta. Insomma: non è il proprio il caso di fare trionfalismi! Ora mi incupisco e non trovo risposte. Quanta distanza abbiamo creato fra il Vangelo e la gente, quanta. Troppa. Le nostre comunità languono, si difendono e si barricano come se fossimo asserragliati a Fort Alamo a sparare contro i messicani, sperano che le poche pecore rimaste nel recinto non fuggano. E, invece, là fuori, le persone sono perse, sbandate, pecore senza pastore. No, non ho soluzioni. Questo è il tempo in cui il Signore ci ha chiamato a dare speranza. Questo. E qui dobbiamo e possiamo portare Cristo, trovando linguaggi nuovi. Meglio: recuperando linguaggi vecchi, l’unico l’universale, assoluto, quello che ha convertito le folle, quello che ha forgiato i santi, cavolo. Il linguaggio dell’amore, ciò che ogni essere umano cerca. E che la Chiesa conosce e non riesce a donare con sufficiente convinzione. Lo so, è più complicato di così, scusate. Forse vorrei solo maggiore consapevolezza che dobbiamo uscire dal recinto. Magari non per portare dentro le pecore, che non sanno neppure di essere perdute. Ma perché Cristo è lì fuori con loro. Con i ragazzi del kebab.
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